Che film hai visto?, pareri e recensioni

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Pessimismo Cosmico
view post Posted on 6/2/2018, 21:22     +1   -1




Come dove sta la suspance O.o? Seii l'unico a non vederla. Hai visto che montaggio? Tutto che sembra andare storto? Il camino che illumina la scrivania? Le forbici.

Film clamoroso e che ha influenzato una marea di thriller da camera.
 
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view post Posted on 7/2/2018, 00:11     +1   -1
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Signore del crimine

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CITAZIONE (Pessimismo Cosmico @ 6/2/2018, 21:22) 
Come dove sta la suspance O.o? Seii l'unico a non vederla. Hai visto che montaggio? Tutto che sembra andare storto? Il camino che illumina la scrivania? Le forbici.

Film clamoroso e che ha influenzato una marea di thriller da camera.

Io non ci vedo niente di clamoroso. Tutto troppo ordinario. Finale prevedibile.
 
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Lone Fire
view post Posted on 8/2/2018, 00:04     +1   -1




Nonostante non lo ritenga così vicino a Rope (in molte cose i due film sono gemelli, con uno dei due venuto prima oltre che complessivamente più interessante), c'è da dire che Dial M for Murder nelle sue parti è un film impeccabile, basato sugli imprevisti e sul concetto di evento, sulla quale sono basati molti thriller moderni. E' bello vedere come il film inizia con la descrizione del crimine nei suoi dettagli, un viaggio a ritroso rispetto al giallo classico.
 
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Pessimismo Cosmico
view post Posted on 10/2/2018, 10:52     +1   -1




Ore 15:17 - Attacco al Treno di Clint Eastwood (2018).

Con Ore 15:17 - Attacco al Treno, il regista conclude la trilogia filmica dedicata agli eroi recenti della storia americana; e tutto si può dire di quest'opera tranne che sia un brutto film come la gran parte della critica mondiale ignorante (in primis quella americana) vuole farci credere. Il massacro critico è presto spiegato, come i ben informati sanno, il signor Clint Eastwood sin dagli anni 50' è un sostenitore dichiarato del partito Repubblicano (è registrato come elettore), che ha sempre sostenuto in prima persona (anche con cospicui finanziamenti) e non da ultimo, ha dato il suo appoggio a Donald Trump. Ora da quando questo controverso presidente è riuscito a salire alla Casa Bianca, la reazione delle elite della cultura critica cinematogafica e di Hollywood è stata di totale chiusura verso questa novità. Tutto questo ha portato nell'ultimo anno ad una repressione da parte della critica di tutti i film che non seguissero certi dettami come : il politicamente corretto, il femminismo, dadeguata rappresentazione delle minoranze etniche, favore verso i diritti civili etc... in sostanza la solita solfa sterile di idee di sinistra... ma rigorosamente quella educata e "borghese" (chi spiega a questi geni che se non si raggiunge in primis una prequazione economica, i diritti che in astratto avrei non potrei mai farli valere nel concreto?). Non dovrebbe stupire quindi che un regista, il cui cinema sin dagli anni 70' trae molta forza dalla rabbia, dall'insoddisfazione e dalla rappresentazione della lacerazione degli Stati Uniti, venga accolto molto male con questo film che non si preoccupa di seguire alcuna moda imperante del pensiero ed è affronta in modo controverso la trattazione della materia in questione.

Affrontata questa doverosa premessa; c'è da dire he la trama è molto semplice e stringata, nonchè nota poichè tratta da un fatto di cronaca molto recente e a cui è stato data ampio risalto.
Skarlatos, Stone e Sadler; sono tre ragazzi (i primi due sono anche militari in licenza) in vacanza nelle capitali europee, che durante un viaggio in treno verso Parigi, si troveranno loro malgrado ad affrontare e a sventare un attentato terroristico di un affiliato dell'ISIS.

Il film è semplice schietto e diretto; questi tre giovani sono di forte ideologia Repubblicana e Clint Eastwood senza alcun timore reverenziale, ce lo sbatte subito in faccia. Stringatezza e essenzialità nella della storia sono i due elementi cardini su cui si fonda quest'opera, che inizia dall'infanzia dei tre giovani per poi mostrarci di tanto in tanto dei flashforward dell'attentato al Treno del 21 Agosto 2015. Skarlator, Stone e Sadler (Eastwood si focalizza specialmente sulla figura del secondo), sono tre giovani percepiti sin da piccoli come "anormali" e poco disciplinati. La loro vita è pura frustrazione per via di una scoietà che punta ad inculcare idee senza però spiegare il perchè di esse (in primis i valori religiosi della scuola cristiana in cui i nostri tre ragazzini fanni parte). L'unico collante che li unisce è per assurdo la guerra... infatti passano lunghi pomeriggi a giocare ad essa, che lungi però all'essere vista come demoniaca, è l'unico elemento che consente a questi tre ragazzini emarginati dal sistema di fare del cameratismo tra loro.
Come detto in precedenza, il cinema di Clint Eastwood sin dalle origini (e anche in veste puramente di attore), è cinema fatto di rabbia contro qualcosa o qualcuno... le istituzioni, i politici, la società, certe idee finto progressiste utopiche etc... ed Eastwood con quest'opera mette in piena luce tutto questo. Scegliendo di far interpretare il film ai veri protagonisti della vicenda reale, il regista cerca un'urgenza espressivo-formale che dei veri attori non avrebbero mai potuto dargli. Quello che la critica ha scambiato per appiattimento, semplificazione e inespressività degli attori, non è altro che la messa in scena della vita vera in tutto e per tutto. Per Eastwood i veri eroi non sono quelli che la Marvel ci vuole propinare con i suoi esseri fascisti di plastica e cartapesta, né gente dall'alta integrità morale ed ideologica che spopolano in tanti bio-pic celebrativi (anche degli ultimi anni purtroppo); ma l'eroe per il regista è chi riesce a reagire immediatamente (anche incoscientemente) innanzi ad un problema di grave entità e riesce ad affrontare in modo pragmatico quanto diretto tutti problemi della vita che sembrano volerti solo stendere. Interessante il discorso sull'immagine che il regista ultra-ottantenne riesce a compiere (e qua si collega alla TV di American Sniper che mostra le immagini dell'attentato alle Torri Gemelle) nella seconda parte di film molto criticata, dedita al turismo.

La vita di questi giovani e della loro generazione, è fatta di immagini ed indottrinamento tramite di esse. L'unico modo di potersi sentire qualcuno è replicare battute di film di scarso valore come quelle del Gladiatore nel Colosseo, oppure fare continui selfie (autoscatti) per condividere le proprie foto con gli altri... è l'immagine di sè che conta e non l'esperienza che si sta vivendo.In questo modo questa generazione di esseri anonimi, pensa di poter uscire dalla massificazione egualitaria a cui sembra condannata, pensando di trovare il proprio affermazione nel mare magnum della rete. Non a caso la regia nella parte turistica del film, fà molto uso di stereotipi buttati in faccia allo spettatore e riprese tipiche da video condiviso da Instagram. Una generazione superficiale di americani che quando vanno in vacanza sono sempre i soliti cafoni (che poi per inciso, quando vado in vacanza in un posto mai visto, vedo i monumenti, non è che vado nei luoghi quotidiani... sennò che viaggio a fare), che pensano che tutto ruoti intorno a loro e che la storia sia stata fatta da loro (un sapiente uso dell'ironia da parte della guida tedesca a Berlino fà capire che non è per niente così perchè in effetti gli americani si prendono tutti i meriti, anche quelli che non sono i propri... come dire... se vi sono registi che pomposamente e didascalicamente celebrano gli Usa, il nostro vecchio Clint con una maestria da veterano demolisce il suo paese con una battuta politicamente scorretta).

In tutto questo vissuto normale di quotidianetà vacanziera, il protagonista Stone ci dice ad un certo punto che forse pensa di poter essere destinato a qualcosa di più, ma è una riflessione giovanile superficiale, che viene subito derisa dal suo amico Sadler; ma la ripresa panoramica di Venezia fà capire come in realtà ognuno di noi pur essendo interconnesso in un flusso vitale (in questo caso i calli di Venezia), cerca di trovare il modo di potersi realizzare uscendo da esso. Ad Eastwood non interessa il momento del treno, quello è episodio che casualmente faceva parte del flusso della vita dei nostri tre amici e che partendo da un semplice viaggio quotidiano, sono riusciti a salvare la vita a tante persone. Inoltre al regista non interessa minimamente creare momenti memorabili, perché tre amici che vanno in vacanza si comportano veramente così e non c'è bisogno di forzare l' espressività dei protagonisti, nè di romanzare qualcosa dietro a questo viaggio e né di rendere il tutto artificioso con la recitazione di veri attori che pur immedesimandosi nei veri protagonisti, non potranno mai far vivere la vera esperienza di quell'evento. In sostanza Questi tre ragazzi (più un'altra persona) sono dei veri eroi; perchè in quel preciso momento non c'era un'ideologia politica da difendere o quant'altro, ma si doveva solo agire e basta. Non c'è bisogno di approfondire il personaggio del terrorista di cui Eastwood sino all'ultimo non ci mostra il volto, poichè il pericolo è rappresentato da chiunque e ci passa accanto nella nostra vita e noi neanche ce ne accorgiamo (illuminante la scena del tizio di colore nel treno e di fuori c'è il terrorista che tranquillamente cammina con il trolley). Un attentato sventato in modo secco, asciutto e senza retorica enfatica... realismo estremo e nessuna costruzione... non siamo assistendo alla recitazione, ma ciò che vediamo è un vero pezzo di vita. Il terrorista è solo un invasato che voleva fare una strage e saggiamente Eastwood non si addentra in una stupida quanto razzista critica contro i musulmani (L'ISIS viene citato di sfuggita da Skarlator in una conversazione internet... tutto viaggia verso il mare magnum della rete).
 
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view post Posted on 11/2/2018, 14:22     +1   -1
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Torno a scrivere in questo topic dopo diversi mesi di colpevole assenza. Vedo anche che ormai scrivono un po' tutti sempre meno e l'unico attivo sembra Pessimismo Cosmico. Vi lascio qualche breve considerazione su alcuni dei film visti in questo lungo periodo di silenzio, sommariamente in ordine crescente di apprezzamento.

Partendo con il peggio visto quest'anno, non si può non parlare di Pirati dei Caraibi: La Vendetta di Salazar di Joachim Rønning & Espen Sandberg. Film che sfiora la parodia involontaria, nel reiterare maldestramente il concept di Sparrow e nel proporre una narrativa e dei personaggi principali assolutamente imparagonabili, per carisma e scrittura, all'epopea di Will Turner ed Elizabeth Swann. Discorso singolare invece per La Mummia di Alex Kurtzman. Pellicola che nella prima parte, fino alla sequenza in aereo (compresa), si presenta davvero come un ottimo action-adventure e sembra quasi voler puntare ad essere la miglior trasposizione possibile di Uncharted, ma che in seguito si trasforma in una delle robe più anonime e insignificanti degli ultimi anni, tra personaggi inconsistenti (Mummia in primis) o gettati nel mucchio in maniera puerile e senza ritegno, nel tentativo di dar vita, nel peggiore dei modi (poichè privo di una reale visione o d'identità) all'universo condiviso dei mostri Universal. Poco meno insignificante, ma comunque abbastanza onesto e innocuo, era il tentativo di creare un'immaginario, visivo e narrativo, partendo con il Dracula Untold di Gary Shore, fantasy a sfondo storico che si faceva almeno vedere con un minimo d'interesse in più. Tra i prodotti seriali commerciali, si lascia comunque vedere come sempre Fast & Furious 8 di F. Gary Gray, che tra il consolidato carisma dei personaggi e la continua ricerca di una spettacolarizzazione ludica portata all'eccesso, non smette di far passare un paio d'ore di puro svago, riuscendo a trovare, di volta in volta, una ragione sempre nuova ed una motivazione sempre concreta per muovere i personaggi, incarnate in questo caso dalla figura, dalle azioni e dall'aura di una cinica Charlize Theron. Ma il Re indiscusso dello spettacolo resta sempre e soltanto lui, che quest'anno, con Transformers: L'Ultimo Cavaliere, si è superato ancora una volta. Tra azione, fantascienza, guerra, fantasy e storia, Michael Bay firma il suo più grande compendio di spettacolarità scenica e cinematografica, un delirio di onnipotenza che spazia da un genere all'altro senza soluzione di continuità, mettendo in scena tutto quanto nello stesso gargantuesco lungometraggio, quasi fosse l'ultima occasione per spingere il Cinema oltre i suoi limiti.

Passando a qualcosa di più gradevole, possiamo parlare di Yoga Hosers di Kevin Smith, film che non manca di presentare la sua comicità tipica, questa volta mirata alla satira politica che regala una commedia grottesca gradevole, ma purtroppo molto distante dai suoi ultimi folgoranti lavori, risultando molto poco cinematografica ed incisiva. In quel periodo ho visto anche Into the forest di Patricia Rozema, dramma a sfondo post-apocalittico che vorrebbe affrontare il legame tra due sorelle in lotta per la sopravvivenza in un mondo quasi allo stato primitivo, a cui non bastano le comunque ottime prove di Ellen Page ed Evan Rachel Wood, perchè risulta nel complesso abbastanza sterile e ripetitivo, pur essendo tecnicamente valido. Non mi è servito quindi molto per apprezzare maggiormente The Last King di Nils Gaup, ambientato durante la guerra civile in Norvegia nel XIII Secolo. E' il racconto, da una parte, del viaggio di Skjervald e Torstein (Hivju), due guerrieri pronti a dare la vita per proteggere il neonato figlio del Re, mentre quest'ultimo è sul letto di morte e la fazione avversaria da la caccia all'erede, dall'altra il racconto dei complotti di corte, con uno dei nobili che tenta di ottenere il regno tramite matrimonio forzato. Visione molto piacevole sia per il contesto storico ricostruito e messo in scena con gran cura, sia per il modo in cui vengono fotografati il paesaggio e le varie ambientazioni, dando la sensazione di trovarsi realmente nella Norvegia selvaggia del XIII Secolo. Negli stessi giorni ho visto anche The Bad Batch di Ana Lily Amirpour, cui ero interessato perchè da sempre particolarmente attratto dal genere e dall'ambientazione, ma in questo caso anche dai toni che li attraversavano. Ne sono rimasto piacevolmente soddisfatto, non quanto avrei immaginato, perchè in alcuni aspetti il film risulta quasi un prodotto amatoriale ispirato al genere, ma comunque abbastanza, grazie soprattutto alla caratterizzazione di certi personaggi ed al sapore agrodolce dell'intera vicenda. Più o meno l'ho apprezzato tanto quanto Get Out di Jordan Peele, visto qualche giorno fa e per il quale risulta per me inconcepibile la nomination a Miglior Film. O meglio, la si comprende molto chiaramente. Purtroppo è un film decisamente nella media, che si basa sulla classica storia dell'ospite che è molto più che un ospite per i padroni di casa (soggetto narrativo che condivide con vari film, tra i più noti dei quali vi è ad esempio The Skeleton Key, con cui condivide anche la presenza di personaggi di colore e similitudini con il twist). Una pellicola tecnicamente curata come ci ha ormai abituato la produzione Blum, un film espressamente politico che mette in scena una satira sul razzismo contemporaneo molto più sublodo e meschino perchè mascherato da una facciata di antirazzismo, ma nonostante le sue oggettive qualità (in particolar modo attoriali e in parte registiche), non riesce a rielaborare ispirazioni e clichè per realizzare qualcosa di unico e incisivo. Complice anche la scelta folle di modificare il finale, rendendo così il film molto più debole e commerciale.

Molta più soddisfazione l'ho avuta invece da progetti sulla carta meno interessanti, come Kingsman: Il Cerchio d'Oro di Matthew Vaughn, che espande il suo universo fumettistico all'insegna del more of the same, non mancando di focalizzarsi sui fondamentali rapporti umani, nè di rappresentare come sempre in chiave fumettistica-bondiana le manie e i deliri di onnipotenza degli esseri disumani. Mediamente soddisfatto anche da Bright di David Ayer, che sulla scia di Suicide Squad declina i suoi classici temi in chiave urban-fantasy, ma questa volta curando molto meglio scrittura e regia. Narrativamente semplice e basilare, al punto da limitarsi quasi solo a costruire un immaginario (potrebbe essere anche il pilot di una serie ed un sequel è comunque già in cantiere), il film risulta estremamente piacevole e godibile per il bellissimo lavoro a livello visivo, estetico e registico, capace di creare su schermo un universo unico e personale, al tempo stesso realistico e affascinante, in grado di ammaliare e coinvolgere nelle vite e nelle vicende dei personaggi. Facendo un salto nella fantascienza, non ho potuto non apprezzare, più del suo predecessore, Alien Covenant, con cui Ridley Scott ha messo in scena egregiamente l'ormai abusato tema dell'intelligenza artificiale, rendendo vivido e coinvolgente questo scontro morale, intellettuale, psicologico ed emotivo tra i due androidi protagonisti per la sopravvivenza ed il potere. Ma a soddisfarmi più degli altri all'interno dei questa serie di avventure fantastiche ci ha pensato Valerian e la Città dei Mille Pianeti di Luc Besson, che porta l'immaginario di Mézières, già influenza del Cinema di fantascienza contemporaneo, ad essere molto più vicino, per estetica ed atmosfere, alla sua controparte cartacea. Come già aveva fatto in parte con Il Quinto Elemento, cui aveva collaborato lo stesso Mézières. In questo caso si tratta di un adattamento diretto dell'opera fumettistica francese, che prende letteralmente vita su schermo grazie ad uno straordinario e curatissimo lavoro di computer grafica, tra la migliore mai vista, sapientemente gestito a livello estetico e perfettamente calibrato per essere funzionale alla narrazione ed alle idee visive e registiche di Besson, dando così vita ad un'avventura fantascientifica che nella sua semplicità da classica spy-story risulta estremamente fresca, coinvolgente, divertente e in parte anche emozionante. Piacere simile per la visione di Jumanji di Jake Kasdan. Una divertentissima avventura come non se ne vedono quasi più ormai, che rielabora con misura e competenza l'idea di Jumanji nell'era dei videogiochi. Un susseguirsi d'idee narrative argute e vincenti, che applicano i concetti videoludici basilari alla disavventura dei protagonisti alle prese con le caratteristiche, le abilità, le debolezze e le possibili azioni dei propri avatar, mentre interagiscono con il mondo di gioco. Jack Black è Jack Black, ma a prendere in mano il tutto e trascinarci nell'avventura ci pensa The Rock, che si conferma una presenza scenica eccezionale, una notevole maschera emotiva ed un mattatore attualmente senza pari, per un coming of age leggero e spassoso che non manca di emozionare. E poi... c'è Karen Gillan. Non ho idea del perchè non siate ancora davanti ad uno schermo per vederlo.

Tempo fa poi m'era venuta la voglia malata di andare a vedere cos'avessero combinato con l'assurda idea dei sequel di Dragonheart. Cosa che, di rimando, mi aveva portato a rivedere il bellissimo Dragonslayer di Matthew Robbins, pellicola che risulta ancora oggi una piacevolissima visione per la sua capacità di rielaborare gli stereotipi del genere ed il suo pionierismo negli effetti speciali. Se dunque la visione di Dragonheart 3: La Maledizione dello Stregone di Colin Teague ha avuto un esito mediamente scoraggiante in vista del sequel (trattandosi di una produzione home-video che, se da un lato trae piacevolmente spunto da prodotti come GoT, dall'altra non fa che banalizzare e depotenziare l'immaginario cinematografico con una narrativa sterile, seppur sviluppata da idee potenzialmente interessanti), potete immaginare la mia piacevolissima sorpresa nell'esser stato ampiamente soddisfatto dalla visione del suo diretto sequel, Dragonheart 4: La Battaglia per l'Heartfire di Patrik Syversen. Un film che presenta fin da subito una personalità ben definita, figlia dell'identità norvegese del suo regista, che gli conferisce un'impronta fortemente riconoscibile per estetica e stile. Una fotografia, un uso della camera a mano e della messa a fuoco che non possono che rimandare la mente alle atmosfere, ai luoghi ed ai ritmi scandinavi, capaci di conferire al film non solo personalità, ma anche una certa qualità dal punto di vista estetico ed una certa profondità dal punto di vista espressivo. Complice un lavoro estremamente curato a livello narrativo, che si esprime abilmente attraverso un montaggio non lineare capace di creare un gioco costante, incalzante e coinvolgente tra verità e menzogna, realtà e ricordi, al fine di costruire non solo sul piano fisico e materiale, ma anche e soprattutto sul piano umano, emotivo e psicologico, lo scontro tra i due fratelli protagonisti ed il loro indissolubile legame. Degno sequel dell'opera di culto del 1996, di cui rielabora l'eredità e rievoca lo spirito. Insperatamente valido.

Così come ho trovato molto valido IT: Capitolo Uno di Andy Muschietti, che nonostante guardi (forse anche un po' troppo) all'immaginario contemporaneo revival degli anni 80, riesce a conferire identità alla sua visione e a rendere fresco e più vicino alle nuove generazioni l'immortale racconto di formazione di Stephen King. Anche grazie alle interpretazioni dei giovani protagonisti, che spero di ritrovare in dei flashback nel capitolo successivo, atteso anche come visione necessaria per poter dare un giudizio complessivo all'intero adattamento del romanzo. Apprezzato molto poi anche i lavori di Chad Stahelski e David Leitch, che, reduci dal loro successo d'esordio, si separano per dar vita, il primo, a John Wick: Capitolo 2, il secondo ad Atomica Bionda. Apprezzati sostanzialmente allo stesso modo, sia per ragioni simili (soluzioni registiche), sia per ragioni diverse. In particolare, il film con Reeves per la sua capacità di espandere le premesse del primo capitolo, ampliarne la mitologia, sfruttare meravigliosamente Roma a livello scengografico e fare da base narrativa per un terzo capitolo potenzialmente esplosivo. Il film con la Theron per il mood da spy story, l'ambiguità dei personaggi, gli sviluppi narrativi e soprattutto la capacità di ricostruire su schermo, attraverso immagini, luci e musiche, un periodo storico dall'atmosfera particolare, quello a cavallo tra gli anni 80 e 90, gli anni in cui sono nato e la cui eco risuonava nei miei primi anni di vita, tanto che l'indentifico ancora oggi, nella memoria più lontana, sia con determinati suoni che con i colori predominanti nel film a livello scenografico, fotografico o anche solo degli oggetti di scena che caratterizzano il desing e l'estetica del periodo (come l'abbigliamento, i jeans, i dispositivi tecnologici, la Volvo, ecc): il blu e il grigio. Ma restando in tema Keanu Reeves, posso dirmi anche ampiamente soddisfatto da Knock Knock di Eli Roth, torbido e moralmente ambiguo, che gioca abilmente sul concetto di preda e predatore sessuale nell'era dell'apparenza e dei social media che privano dell'umanità e trasformano tutto in un gioco. Mi ha richiamato alla mente quel piccolo gioiello di Hard Candy, seppur abbia toni e finalità differenti.

In serata o domani, cerco di scivere qualcosa sui film più interessanti, importanti o anche solo più belli visti negli scorsi mesi e in questi giorni.
 
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Pessimismo Cosmico
view post Posted on 11/2/2018, 15:17     +1   -1




Ciao Snakuccio. Lo so che siamo sempre nemici virtuale, ma finalmente ritorni a scrivere che bello ^^.
Fast and Furious 8 l'ho trovato orribile. E dire che il regista aveva (molti) anni prima diretto quel buon film chiamato il Negoziatore. Quindi delusione tripla. Senza contare che ho trovato la Theron con i capelli rasta inguardabile e i nostri sono diventati dei supereroi. Il figlio di Clint Eastwood è meglio che vada a fare il fotomodello. Il personaggio di Jason Statham ha subito un evoluzione che non ha basi narrative concrete... killer spietato e ora aiuta i nostri così... Dom non gli dice niente nel finale... ha sempre ucciso Han alla fine.
Pirati 5... dici che sfiora la parodia? Per me ci cade in toto.

Giulia di Fred Zinnemann (1977).

L'ho preso a 2 euro in edicola buttato nel cestone... faceva parte di una collana di film storici (di cui ho presi Il Leone d'Inverno). Beh... un ottimo film, avercene biopic così al giorno d'oggi (tratto dal romanzo autobiografico Pentimenti di Lillian Hellman) e il regista in questione non sbaglia un colpo visto che è il quarto film suo che vedo ed è qualitativamente elevato, anche se girato da un Zinnemann oramai 70enne con uno stile neo-classico e in piena New-Hollywood.
Il film racconta la storia di amicizia tra due ragazzine e poi donne nel corso del tempo, Lillian una ragazza di classe borghese e Giulia (o Julia?), appartenente ad una famiglia aristocratica di New York, che si mostrerà sempre più insofferente a quell'ambiente mediocre e freddo, finendo con il distaccarsene per fare una scelta di r-esistenza anti-sistema e unirsi ai gruppi progressisti e socialisti in Europa negli anni 30'.

In effetti si capisce perché Zinnemann l'abbia voluto dirigere. Da giovane è stato testimone delle peggiori nefandezze del nazismo, a causa dalle quale dovette emigrare negli USA e lì venne a sapere di aver perso i suoi genitori nell'olocausto. Inoltre, è un film che si accorda pienamente con la sua poetica sul conflitto tra uomo e la sua coscienza e la solitudine dell'individuo nell'affrontare le avversità della storia e della società. Quello a cui assistiamo è la storia di un fallimento e di rimorsi, ma il regista ce lo dice sin da subito ad inizio film inquadrando in controluce l'anziana Lillian pescare sul lago. Il regista sceglie un approccio intimo alla narrazione, la storia non è tenuta fuori, ma siamo costantemente sulla nostra protagonista, anche il montaggio ha una funzione emblematica in questo, poichè ci priva di ogni coordinata spazio-temporale e soltanto qualche breve dialogo riesce a far si che si capisca dove ci si trovi ed il contesto. In effetti l'uso di un montaggio stile la Passione di Giovanna d'Arco di Dreyer (di cui il regista era un fanboy sfegatato, ma a livello stilistico ce ne eravamo accorti anche in Storia di una Monaca di questo) abbinato ai continui flashback nella prima parte non è sempre indicato come approccio ed in effetti in un paio di momenti l'espediente m'è parso sin troppo legnoso se non eccessivamente artificioso... ma nella seconda parte invece si ritrova pienamente la quadratura.
Un secondo ed ultimo difetto è l'eccessiva freddezza... è un difetto sempre imputato a questo autore nei suoi film, che veniva accusato da riviste come quella dei Cahiers du Cinema o di Film Culture di non inserire mai dei momenti che stemperino il tono freddo delle sue opere con dell'umorismo (mi vengono in mente certe diatribe odierne sulla faida di cinecomics e su un certo regista chiamato sommo qua sopra... in sostanza le polemiche sono sempre le medesime in ogni tempo). Ma Zinnemman è uno che ha vissuto un'infanzia e una prima parte della sua vita in modo alquanto infernale e capisco benissimo, che essendo la vita puro dolore non volesse mandare in vacca la serietà rigorosa delle sue opere... d'altronde se non è nella sua indole, perché forzare le cose? Solo che in un film basato sull'amicizia che resiste nel tempo tra due donne, un pò più di calore sarebbe stato gradito, ma non è un difetto eccessivo, visto che in suo soccorso vengono due brave attrici come Jane Fonda e Vanessa Redgrave; la prima rende benissimo le inquietudini, la frustrazione e la nevrotica paura del suo personaggio (specie nel viaggio in treno verso Berlino), mentre la seconda riesce a dare un ritratto anti-conformista sinceramente sentito e rigoroso, di questa Giulia, senza mai cadere nel patetismo idealista retorico (anzi... quando mostra la gamba a Giulia, frena subito ogni tentativo di compassione spicciola con una frase di eleganza rigorosa). In effetti la scena nel bar quando le nostre due protagoniste si rincontrano dopo anni, è il punto cinematografico più alto del film; il regista fà sedere le attrici in un tavolo ad angolo retto, come se ci comunicherà l'imminente divisione che deriverà da lì a poco poichè la storia farà prendere due strade diverse nella loro vita (il contatto tra loro con le mani, il cappotto di Julia e il cappello di Lillian,sono gli unici strumenti con cui vengono in comunicazione tattile). Lillian nella sua eleganza splendida (la fotografia filtrata su di lei ne smussa ogni imperfezione esteriore), è nevrotica ed insicura (forse prova anche un qualche sentimento che va ben oltre l'amicizia per Giulia), Giulia la rassicura e la calma con la consapevolezza di chi sembra aver raggiunto una pace dettata dalla soddisfazione di essersi pienamente realizzata come persona dal punto di vista ideologico e quindi individuale. In effetti Giulia è la coscienza civile che interviene costantemente nel flusso indistinto dei ricordi di Lillian, per svegliarla dalla solitudine del non-luogo della casa sulla spiaggia e anche ad un certo punto dalla vita mondana derivatole dal suo successo (interessante la scelta di citare La Calunnia - in originale Children's Hour - un'opera di coscienza civile contro lo schifoso conformismo sociale oppressore verso una falsa accusa di lesbismo rivolta verso le due insegnanti).

Se la freddezza quindi magari non può piacere a tutti come scelta (ma ciò può interpretarsi come isolamento di Lillian dal mondo dalla vita civile attiva, a differenza del suo compagno e di Giulia, seppur abbia sempre amato entrambi questi personaggi), questa cosa consente di evitare derive agiografiche, pompose e retoriche di cui sono infarciti tanti biopic (il regista contestualizza si tutto e ci fà percepire il periodo storico, ma all'accesso preferisce la rigorosa intimità). I suoi trascorsi in generi come quello western e thriller, aiutano Zinnemann a creare scene di tensione degne di Hitchcock, come nella lunga sequenza nel viaggio in treno attraverso la Germania.
Per i fanboy di Maryl Streep (io non lo sono per niente, anzi...), si segnala il suo primo ruolo d'attrice al cinema; piccola patrocina di un minuto scarso (l'anno prima venne scartata dal film King Kong perché considerata non bella), ma è interessante il personaggio che Zinnemann le fa interpretare... una viscida signora alto-borghese snob con tendenze reazionarie-conservatrici. La Streep fà il suo debutto e recita in quel pochissimo tempo accanto a Jane Fonda... tutta esperienza che farà curriculum.
A quanto vedo venne anche candidato agli oscar in una marea di categorie, tra cui miglior film e miglior regia, ma perse giustamente contro Io e Annie di Allen.
Giulia è un film da vedere, un biopic da preservare e da capire in tutte le sue sfumature estetico-formali. Un film fortemente pessimista in tutto e per tutto, nonostante il tema dell'amicizia tra queste due donne.

Edited by MAN of STEEL - 11/2/2018, 17:23
 
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Pessimismo Cosmico
view post Posted on 12/2/2018, 18:22     +1   -1




Visti due film con Greta Garbo.

Grand Hotel di Edmund Goulding (1932).

Non sono espeto di film di quegli anni, però... m'è sembrato fatalmente invecchiato e non solo, ma l'ho trovato anche datato. Se lo si recupera, ha un valore oramai più storico. Il regista non mi pare un nome grosso ed in effetti celebra solo lo sfarzo ed il lusso di quest'hotel con frammenti di varia umanità di varie classi sociali che circolano in esso e si mette al servizio dei vari divi... una marea di primi piani concessi ad ognuno e non sempre per finalità narrative; Greta Garbo ad esempio praticamente per il 70% del tempo è inquadrata in primo piano (e i suoi capelli hanno un illuminazione tutta loro). A proposito della Garbo, è il primo film con lei che vedo (o forse ne vidi un altro... era un melodramma in bianco e nero). Algida, fredda come un congelatore, teatrale ok però... ammazza donna, una strafiga galattica e soprattutto che espressività... a mio avviso il regista però non l'ha valorizzata a dovere... per lo meno a posteriori al giorno d'oggi. Però è innegabile che ogni volta che entri in scena ha un magnetismo tutto suo... se la tira da morire, ma se lo può permettere perché è veramente divina.
Tuttavia ho trovato che la migliore del lotto sia risultata Joan Crawford, una recitazione poco datata ed invecchiata, primo film suo che vedo e mi ha colpito. E' il personaggio con la story-line più umana ecco! A Greta Garbo hanno affidato una linea narrativa di puro melodramma d'altri tempi che risulta tremendamente invecchiata al giorno d'oggi, una farsa teatrale che però ha interesse per il fatto che l'attrice pronunci due-tre monologhi che sottolineino la sua volontà di essere lasciata sola e quasi ne preannuncia il ritiro futuro, mentre Crawford complice anche una linea narrativa che è ancora attuale, è quella che al giorno d'oggi s'è conservata meglio.
Gli altri attori non li conosco per niente, però il personaggio del malato terminale era una figura interessante poichè espone una critica di sinistra (seppur ad un certo punto urlata letteralmente in faccia allo spettatore) contro la figura dell'industriale. Il personaggio di Barrymore che fà il barone è il collante che unisce tutti. Alla fine c'è chi troverà una felicità momentanea, chi viene ingannato e si illude di essa (che tristezza m'ha messo il personaggio della Garbo nel finale) e chi fà una brutta fine. Gente che và... gente che viene... non succede mai niente... la battuta che pronuncia il dottore e consegna questo film all'immortalità sintetizzando l'essenza del film; un Hotel e tanti drammi, tante storie che passano e tante vite che s'incrociano. La metafora è ancora forte sotto quest'aspetto. La regia ha pochi guizzi (se non inquadrare dall'alto i piani interni dell'albergo, quella era un'inquadratura interessante) e risulta alquanto datata. Inquadrature per lo più al servizio dei divi, poco interessanti nel comporre l'immagine per lo più (tranne l'inquadratura dell'intero interno dell'albergo fatta dall'altro) e scarsa profondità di campo (che nervi certi personaggi fuori fuoco che poi devono muoversi in avanti.. non potevano illuminare maggiormente per avere tutto a fuoco?). Tutto gira intorno al denaro in questo film quindi e quando da esso dipenda la nostra felicità.
Oscar miglior film all'epoca? Non so se fosse meritato, però... il tempo non è stato proprio clemente. E' una cartolina di un'epoca e di un modo di concepirei l cinema che non c'è più. Essendo un prodotto sorto sull'onda di lanciare una "moda", e come tutte le mode, quando passano, risulta fuori tempo. Però un'occhiata comunque se la merita, un brutto film non è.
Come potrei definirlo... è l'Avengers degni anni 30', solo che al posto dei supereroi, buttiamoci più divi possibili così acchiappiamo più pubblico possibile.
Spero che sia Crawford e sia Greta Garbo le possa rivedere in altre pellicole migliori e con registi di altra caratura.

Ninotchka di Ernst Lubitsch (1939).

Primo film di questo regista che vedo, avrei voluto lasciarlo più avanti nella visione perché volevo prima inquadrare meglio Greta Garbo come attrice e beh... mi spiace ma non ce l'ho fatta. Fremevo troppo nel vederlo e a quel punto ho deciso di fittarlo e non me ne sono pentito per niente perché questo film è un capolavoro totale. Ha 80 anni, ma non l'ho trovato invecchiato in nulla e quando nel 2018 vedi un film così vecchio che non porta su di sé manco una ruga beh... tanto di cappello.
La sceneggiatura conta anche l'apporto del futuro genio Billy Wilder ed infatti la sua mano si sente molto, ma sarebbe ingiusto dire che è merito del maestro e basta, perché Lubitsch riesce con la sua regista creare un prodotto fresco e brioso, che mescola la politica con le convenzioni della commedia romantica. Il film è un forte inno all'umanesimo dei sentimenti umani contro ogni forma di appiattimento ideologico che mortifica l'essere umano in quando persona.
E' un film di destra e non mi vergogno a dire che mi è piaciuto perché affronta l'argomento con leggerezza, ma è una leggerezza che non è mai superficiale e che nasconde una forte critica all'applicazione dei precetti del comunismo e non rinuncia ad attaccare anche le storture del capitalismo che Ninotchka rileva e il personaggio odioso della contessa è la parte più negativa dell'ideologia capitalista. Il proletariato decide di schierare l'arma finale per poter contrastare definitivamente il sistema capitalista; Greta Garbo!
Lubitsch forse regala a Greta Garbo il ruolo migliore della sua vita credo e lei lo ripaga alla grande, la sua recitazione dai tempi di Grand Hotel l'ho trovata nettamente migliorata e molto meno enfatica. Da compagna Yakushova diventa Ninotchka, il suo è un percorso di scoperta delle emozioni umane che sono oramai sepolte da impostazioni ideologiche e da anni di lotte contro le forze reazionarie del suo paese (sono rimasti i russi migliori dopo la selezione dice appena giunge a Parigi). E' un viaggio che dal collettivo alienante, all'umanità recondita in ogni individuo e non a caso una delle scene. più significative è quando la donna innanzi allo specchio, si prova un buffo cappello nuovo... la crisalide esce dal bozzolo ed è alla ricerca di una forma in cui riconoscersi, ma è una forma voluta e scelta in modo autonomo e non imposta da astratte ideologie inculcate dall'alto da qualcuno.
Douglas non può che essere il partner migliore probabilmente, egli ne è innamorato e per conquistarla anche lui deve compiere un percorso umano, visto che è un conte che lascia fare tutto agli altri e scoprirà tramite un semplice rifarsi il letto e la lettura del capitale di Marx, che lo porterà ad una nuova scoperta di sé.
Ninotchka è un inno alle emozioni più sincere, dolci e genuine, non ci si può commuovere genuinamente alla scena della bottiglia del latte di Capra regalatole e che le provoca un ricordo felice, perché si; puoi sopprimere l'indole di una persona, ma non puoi mai censurare i suoi ricordi.
Il film gioca molto sulle gag nel contrasto tra popolo ed individuo, Lubitsch mi sembra sia favorevole all'individuo che però non deve mai diventare individualismo che è la degenerazione del sistema capitalista (il personaggio della contessa è questo). La regia asseconda tale scelte e Lubitsch fà frequente uso del piano americano nelle scene tra la Garbo e Douglas, dove entrambi mettono a confronto le rispettive convinzioni ideologiche... comunismo vs capitalismo, rigore vs vita, risparmio vs spreco etc... è un uso registi interessante perché lo spettatore è libero di formarsi una sua opinione e di poter scegliere da che parte schierarsi... oppure no, perché il regista in effetti sembra essere schierato per il partito delle emozioni umane e non a caso che la sequenza più bella del film è quella nella taverna degli operai con Douglas che vuole far ridere la Garbo con una serie di storielle di dubbio divertimento e questa lo ignora mangia nudo tranquillamente (magnetismo puro di Greta Garbo... eh si l'adoro) e poi quando Douglas cade dalla sedia, la Garbo si libera in una risata fragorosa che trascina lo spettatore in quel vortice di felicità. L'essenza del film è tutta qui; una lunga inquadratura statica di svariati minuti e poi si ride per un gesto tanto semplice quanto scemato... eppure funziona.
Inutile dire che ho riso come un fesso per tutta la durata del film, perché il film fà sbellicare dalle risate sul serio. Greta Garbo è divina, perché fà ridere restando seria e le sue battute sono brevi, semplici, ma distruttive nella loro cattiveria (la commedia di qualità deve avere una cattiveria latente, altrimenti non funziona per me), ma ci sono anche dialoghi che fanno riflettere e non mi può che mettere tristezza pensare al domestico in casa del conte Leone che non pensa mai di potersi ribellare alla propria condizione... il sistema capitalista oramai ha introiettato in lui la sua condizione di servitù.
Ninotchka credo che a poco a poco diventerà una delle mie commedie preferite di sempre, perché mi piace una commedia che parla di politica ed il tutto condito da una tenera quanto dolce storia d'amore messa in scena con tutti i crismi e senza sciocchezzuole melassose da quattro soldi (che ridere quando la Garbo chiede alla foto di Lenin di sorridere e questa lo fà per davvero ahahaha).

Edited by MAN of STEEL - 14/2/2018, 14:42
 
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view post Posted on 13/2/2018, 13:19     +2   +1   -1
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The pioneer

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Qualche settimana fa mi sono avventurato nella mia prima esperienza con l'espressionismo. E non potevo che partire da uno dei capisaldi:

IL GABINETTO DEL DOTTOR CALIGARI


Ho avuto la fortuna di rimediare la versione restaurata nel 2014 (dalla Cineteca di Bologna, in collaborazione con la fondazione Murnau), che presenta il film nella sua edizione più completa, perlomeno con il materiale esistente che si è riuscito a recuperare, e con una sontuosa qualità dell'immagine. Il lavoro svolto dai tecnici è stato fenomenale, la splendida e grottesca fotografia dimostra molti meno anni di quanti ne ha il film in realtà.

Le atmosfere della pellicola appaiono fin dall'inizio fosche, e l'alternanza giorno-notte / interni-esterni scandita dai diversi colori contribuisce a immergerti in questo micromondo dalle sembianze di un piccolo paesino tedesco. Le scenografie, per quanto svelate ancora di più nella loro modestia dall'alta definizione, conferiscono quel tono tetro e straniante che permane per gran parte del film, e che è amplificato dai volti spiritati dei protagonisti, opportunamente truccati.
C'è da dire che la trama per spettatori contemporanei come noi risulterà ovviamente già vista, ma questa è un'opera del 1920 pertanto inquadrato in quel contesto temporale questo tipo di narrazione è encomiabile. D'altronde a quanto ho letto uno dei due autori, Carl Mayer, avrebbe in seguito contribuito alla realizzazione di altri titoli della corrente espressionista tedesca. Tra l'altro apprendo anche che prima di finire nelle mani di Robert Wiene (che a dispetto dei suoi lavori precedenti e successivi qui non figura come sceneggiatore), Il Gabinetto Del Dottor Caligari doveva essere diretto da un certo Fritz Lang.

Spiccano nel cast ovviamente i due "antagonisti", se così li si può definire: Werner Krauss è l'interprete che dà vita al mefistofelico dott. Caligari (che credo proprio essere una delle influenze principali sul look del Pinguino burtoniano di Danny DeVito) e inquieta ogni volta che è in scena, tanto nelle inquadrature larghe, dove è affiancato a personaggi "normali", quanto nei primi piani del suo volto incredibilmente espressivo; Conrad Veidt, che conoscevo principalmente per fama, opera con un'espressività più rigorosa per interpretare il sonnambulo Cesare.
La figura che si contrappone ai due, Friedrich Fehér, mi ha impressionato di meno, forse perché a differenza dei due sopracitati la sua carica teatrale è meno giustificata, almeno fino all'atto conclusivo.

Per quel poco che posso dire sul versante tecnico, trovo che i meriti della regia di Wiene siano da ricercare nei modi in cui enfatizza le atmosfere di cui parlavo all'inizio. Gran parte del lavoro però lo fanno appunto le scenografie su tela dipinta, che a dire il vero sono filmate quasi sempre a cinepresa fissa, ma d'altronde non ci si può certo lamentare dell'assenza di carrelli o altro per una produzione dell'epoca.

Che dire, al di là di alcuni film di Chaplin, Il Gabinetto del Dottor Caligari è probabilmente il lungometraggio più vecchio che ho visto, e mettendo in conto questo è una visione che raccomando a chiunque di voi non l'abbia ancora recuperato perché è un tipo di cinema talmente distante dai canoni odierni che non potrà in qualche modo non affascinarvi.
 
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view post Posted on 13/2/2018, 13:46     +1   +1   -1




Inoltre il colpo di scena finale è stato saccheggiato da tanti film successivi...
mi ricordo per ultimo Shutter Island di Scorsese.


Edited by $lask - 13/2/2018, 13:47
 
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view post Posted on 13/2/2018, 13:48     +1   -1
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The pioneer

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Già, ho pensato subito a quello a fine visione.
 
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view post Posted on 13/2/2018, 14:04     +1   +1   -1




Non sono per niente esperto del cinema tedesco dell'epoca ma direi che Murnau lo devi recuperare subito allora. Nosferatu che è il padre dell'horror (seppur l'ho trovato datato un pò... oggi non fà più paura), L'Ultima Risata (questo invece non l'ho trovato invecchiato per nulla). Di suo ci sarebbe Aurora che trovo sia il miglior melodramma mai visto, però sinceramente... non credo sia più cinema espressionista e lo girò in America... fu il primo film a vincere l'oscar.

Edited by MAN of STEEL - 13/2/2018, 15:41
 
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view post Posted on 13/2/2018, 19:00     +1   -1
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film visti negli ultimi 10 giorni

The Ninth Gate (Roman Polański) 2° visione
The chronicles of Riddick (David Twohy)
Glory (Edward Zwick)
Goya's ghosts (Miloš Forman)
Shot caller (Ric Roman Waugh)
The cold light of day (Mabrouk El Mechri)
Babel (Alejandro González Iñárritu)
The international (Tom Tykwer)
Valérian et la cité des mille planètes (Luc Besson)
Fire with fire (David Barrett)
 
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view post Posted on 18/2/2018, 10:43     +1   -1
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Signore del crimine

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Mi tocca ammettere che stavolta lo zio Clint mi ha deluso. Attacco al treno sembra piu un film su una gita turistica che uno su un attentato terroristico.

Edited by MAN of STEEL - 20/2/2018, 00:12
 
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Pessimismo Cosmico
view post Posted on 19/2/2018, 19:22     +1   -1




Ciao ragazzi, qualcuno di voi ha visto i vecchi Superman? Quelli degli anni 70-80 per capirci, come sono? Mi ricordo a sprazzi il primo con Marlon Brando. Sono datati (in senso negativo)?
 
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view post Posted on 19/2/2018, 19:39     +1   +1   -1
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Il ragazzo meraviglia

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A mio modesto parere, Superman e Superman II sono "invecchiati" molte bene... li ho rivisti e li rivedo sempre con molto piacere, non si sentono per me gli anni... anzi, fanno impallidire quelli di Snyder, senza polemica eh.

Edited by MAN of STEEL - 20/2/2018, 20:03
 
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