| Torno a scrivere in questo topic dopo diversi mesi di colpevole assenza. Vedo anche che ormai scrivono un po' tutti sempre meno e l'unico attivo sembra Pessimismo Cosmico. Vi lascio qualche breve considerazione su alcuni dei film visti in questo lungo periodo di silenzio, sommariamente in ordine crescente di apprezzamento.
Partendo con il peggio visto quest'anno, non si può non parlare di Pirati dei Caraibi: La Vendetta di Salazar di Joachim Rønning & Espen Sandberg. Film che sfiora la parodia involontaria, nel reiterare maldestramente il concept di Sparrow e nel proporre una narrativa e dei personaggi principali assolutamente imparagonabili, per carisma e scrittura, all'epopea di Will Turner ed Elizabeth Swann. Discorso singolare invece per La Mummia di Alex Kurtzman. Pellicola che nella prima parte, fino alla sequenza in aereo (compresa), si presenta davvero come un ottimo action-adventure e sembra quasi voler puntare ad essere la miglior trasposizione possibile di Uncharted, ma che in seguito si trasforma in una delle robe più anonime e insignificanti degli ultimi anni, tra personaggi inconsistenti (Mummia in primis) o gettati nel mucchio in maniera puerile e senza ritegno, nel tentativo di dar vita, nel peggiore dei modi (poichè privo di una reale visione o d'identità) all'universo condiviso dei mostri Universal. Poco meno insignificante, ma comunque abbastanza onesto e innocuo, era il tentativo di creare un'immaginario, visivo e narrativo, partendo con il Dracula Untold di Gary Shore, fantasy a sfondo storico che si faceva almeno vedere con un minimo d'interesse in più. Tra i prodotti seriali commerciali, si lascia comunque vedere come sempre Fast & Furious 8 di F. Gary Gray, che tra il consolidato carisma dei personaggi e la continua ricerca di una spettacolarizzazione ludica portata all'eccesso, non smette di far passare un paio d'ore di puro svago, riuscendo a trovare, di volta in volta, una ragione sempre nuova ed una motivazione sempre concreta per muovere i personaggi, incarnate in questo caso dalla figura, dalle azioni e dall'aura di una cinica Charlize Theron. Ma il Re indiscusso dello spettacolo resta sempre e soltanto lui, che quest'anno, con Transformers: L'Ultimo Cavaliere, si è superato ancora una volta. Tra azione, fantascienza, guerra, fantasy e storia, Michael Bay firma il suo più grande compendio di spettacolarità scenica e cinematografica, un delirio di onnipotenza che spazia da un genere all'altro senza soluzione di continuità, mettendo in scena tutto quanto nello stesso gargantuesco lungometraggio, quasi fosse l'ultima occasione per spingere il Cinema oltre i suoi limiti.
Passando a qualcosa di più gradevole, possiamo parlare di Yoga Hosers di Kevin Smith, film che non manca di presentare la sua comicità tipica, questa volta mirata alla satira politica che regala una commedia grottesca gradevole, ma purtroppo molto distante dai suoi ultimi folgoranti lavori, risultando molto poco cinematografica ed incisiva. In quel periodo ho visto anche Into the forest di Patricia Rozema, dramma a sfondo post-apocalittico che vorrebbe affrontare il legame tra due sorelle in lotta per la sopravvivenza in un mondo quasi allo stato primitivo, a cui non bastano le comunque ottime prove di Ellen Page ed Evan Rachel Wood, perchè risulta nel complesso abbastanza sterile e ripetitivo, pur essendo tecnicamente valido. Non mi è servito quindi molto per apprezzare maggiormente The Last King di Nils Gaup, ambientato durante la guerra civile in Norvegia nel XIII Secolo. E' il racconto, da una parte, del viaggio di Skjervald e Torstein (Hivju), due guerrieri pronti a dare la vita per proteggere il neonato figlio del Re, mentre quest'ultimo è sul letto di morte e la fazione avversaria da la caccia all'erede, dall'altra il racconto dei complotti di corte, con uno dei nobili che tenta di ottenere il regno tramite matrimonio forzato. Visione molto piacevole sia per il contesto storico ricostruito e messo in scena con gran cura, sia per il modo in cui vengono fotografati il paesaggio e le varie ambientazioni, dando la sensazione di trovarsi realmente nella Norvegia selvaggia del XIII Secolo. Negli stessi giorni ho visto anche The Bad Batch di Ana Lily Amirpour, cui ero interessato perchè da sempre particolarmente attratto dal genere e dall'ambientazione, ma in questo caso anche dai toni che li attraversavano. Ne sono rimasto piacevolmente soddisfatto, non quanto avrei immaginato, perchè in alcuni aspetti il film risulta quasi un prodotto amatoriale ispirato al genere, ma comunque abbastanza, grazie soprattutto alla caratterizzazione di certi personaggi ed al sapore agrodolce dell'intera vicenda. Più o meno l'ho apprezzato tanto quanto Get Out di Jordan Peele, visto qualche giorno fa e per il quale risulta per me inconcepibile la nomination a Miglior Film. O meglio, la si comprende molto chiaramente. Purtroppo è un film decisamente nella media, che si basa sulla classica storia dell'ospite che è molto più che un ospite per i padroni di casa (soggetto narrativo che condivide con vari film, tra i più noti dei quali vi è ad esempio The Skeleton Key, con cui condivide anche la presenza di personaggi di colore e similitudini con il twist). Una pellicola tecnicamente curata come ci ha ormai abituato la produzione Blum, un film espressamente politico che mette in scena una satira sul razzismo contemporaneo molto più sublodo e meschino perchè mascherato da una facciata di antirazzismo, ma nonostante le sue oggettive qualità (in particolar modo attoriali e in parte registiche), non riesce a rielaborare ispirazioni e clichè per realizzare qualcosa di unico e incisivo. Complice anche la scelta folle di modificare il finale, rendendo così il film molto più debole e commerciale.
Molta più soddisfazione l'ho avuta invece da progetti sulla carta meno interessanti, come Kingsman: Il Cerchio d'Oro di Matthew Vaughn, che espande il suo universo fumettistico all'insegna del more of the same, non mancando di focalizzarsi sui fondamentali rapporti umani, nè di rappresentare come sempre in chiave fumettistica-bondiana le manie e i deliri di onnipotenza degli esseri disumani. Mediamente soddisfatto anche da Bright di David Ayer, che sulla scia di Suicide Squad declina i suoi classici temi in chiave urban-fantasy, ma questa volta curando molto meglio scrittura e regia. Narrativamente semplice e basilare, al punto da limitarsi quasi solo a costruire un immaginario (potrebbe essere anche il pilot di una serie ed un sequel è comunque già in cantiere), il film risulta estremamente piacevole e godibile per il bellissimo lavoro a livello visivo, estetico e registico, capace di creare su schermo un universo unico e personale, al tempo stesso realistico e affascinante, in grado di ammaliare e coinvolgere nelle vite e nelle vicende dei personaggi. Facendo un salto nella fantascienza, non ho potuto non apprezzare, più del suo predecessore, Alien Covenant, con cui Ridley Scott ha messo in scena egregiamente l'ormai abusato tema dell'intelligenza artificiale, rendendo vivido e coinvolgente questo scontro morale, intellettuale, psicologico ed emotivo tra i due androidi protagonisti per la sopravvivenza ed il potere. Ma a soddisfarmi più degli altri all'interno dei questa serie di avventure fantastiche ci ha pensato Valerian e la Città dei Mille Pianeti di Luc Besson, che porta l'immaginario di Mézières, già influenza del Cinema di fantascienza contemporaneo, ad essere molto più vicino, per estetica ed atmosfere, alla sua controparte cartacea. Come già aveva fatto in parte con Il Quinto Elemento, cui aveva collaborato lo stesso Mézières. In questo caso si tratta di un adattamento diretto dell'opera fumettistica francese, che prende letteralmente vita su schermo grazie ad uno straordinario e curatissimo lavoro di computer grafica, tra la migliore mai vista, sapientemente gestito a livello estetico e perfettamente calibrato per essere funzionale alla narrazione ed alle idee visive e registiche di Besson, dando così vita ad un'avventura fantascientifica che nella sua semplicità da classica spy-story risulta estremamente fresca, coinvolgente, divertente e in parte anche emozionante. Piacere simile per la visione di Jumanji di Jake Kasdan. Una divertentissima avventura come non se ne vedono quasi più ormai, che rielabora con misura e competenza l'idea di Jumanji nell'era dei videogiochi. Un susseguirsi d'idee narrative argute e vincenti, che applicano i concetti videoludici basilari alla disavventura dei protagonisti alle prese con le caratteristiche, le abilità, le debolezze e le possibili azioni dei propri avatar, mentre interagiscono con il mondo di gioco. Jack Black è Jack Black, ma a prendere in mano il tutto e trascinarci nell'avventura ci pensa The Rock, che si conferma una presenza scenica eccezionale, una notevole maschera emotiva ed un mattatore attualmente senza pari, per un coming of age leggero e spassoso che non manca di emozionare. E poi... c'è Karen Gillan. Non ho idea del perchè non siate ancora davanti ad uno schermo per vederlo.
Tempo fa poi m'era venuta la voglia malata di andare a vedere cos'avessero combinato con l'assurda idea dei sequel di Dragonheart. Cosa che, di rimando, mi aveva portato a rivedere il bellissimo Dragonslayer di Matthew Robbins, pellicola che risulta ancora oggi una piacevolissima visione per la sua capacità di rielaborare gli stereotipi del genere ed il suo pionierismo negli effetti speciali. Se dunque la visione di Dragonheart 3: La Maledizione dello Stregone di Colin Teague ha avuto un esito mediamente scoraggiante in vista del sequel (trattandosi di una produzione home-video che, se da un lato trae piacevolmente spunto da prodotti come GoT, dall'altra non fa che banalizzare e depotenziare l'immaginario cinematografico con una narrativa sterile, seppur sviluppata da idee potenzialmente interessanti), potete immaginare la mia piacevolissima sorpresa nell'esser stato ampiamente soddisfatto dalla visione del suo diretto sequel, Dragonheart 4: La Battaglia per l'Heartfire di Patrik Syversen. Un film che presenta fin da subito una personalità ben definita, figlia dell'identità norvegese del suo regista, che gli conferisce un'impronta fortemente riconoscibile per estetica e stile. Una fotografia, un uso della camera a mano e della messa a fuoco che non possono che rimandare la mente alle atmosfere, ai luoghi ed ai ritmi scandinavi, capaci di conferire al film non solo personalità, ma anche una certa qualità dal punto di vista estetico ed una certa profondità dal punto di vista espressivo. Complice un lavoro estremamente curato a livello narrativo, che si esprime abilmente attraverso un montaggio non lineare capace di creare un gioco costante, incalzante e coinvolgente tra verità e menzogna, realtà e ricordi, al fine di costruire non solo sul piano fisico e materiale, ma anche e soprattutto sul piano umano, emotivo e psicologico, lo scontro tra i due fratelli protagonisti ed il loro indissolubile legame. Degno sequel dell'opera di culto del 1996, di cui rielabora l'eredità e rievoca lo spirito. Insperatamente valido.
Così come ho trovato molto valido IT: Capitolo Uno di Andy Muschietti, che nonostante guardi (forse anche un po' troppo) all'immaginario contemporaneo revival degli anni 80, riesce a conferire identità alla sua visione e a rendere fresco e più vicino alle nuove generazioni l'immortale racconto di formazione di Stephen King. Anche grazie alle interpretazioni dei giovani protagonisti, che spero di ritrovare in dei flashback nel capitolo successivo, atteso anche come visione necessaria per poter dare un giudizio complessivo all'intero adattamento del romanzo. Apprezzato molto poi anche i lavori di Chad Stahelski e David Leitch, che, reduci dal loro successo d'esordio, si separano per dar vita, il primo, a John Wick: Capitolo 2, il secondo ad Atomica Bionda. Apprezzati sostanzialmente allo stesso modo, sia per ragioni simili (soluzioni registiche), sia per ragioni diverse. In particolare, il film con Reeves per la sua capacità di espandere le premesse del primo capitolo, ampliarne la mitologia, sfruttare meravigliosamente Roma a livello scengografico e fare da base narrativa per un terzo capitolo potenzialmente esplosivo. Il film con la Theron per il mood da spy story, l'ambiguità dei personaggi, gli sviluppi narrativi e soprattutto la capacità di ricostruire su schermo, attraverso immagini, luci e musiche, un periodo storico dall'atmosfera particolare, quello a cavallo tra gli anni 80 e 90, gli anni in cui sono nato e la cui eco risuonava nei miei primi anni di vita, tanto che l'indentifico ancora oggi, nella memoria più lontana, sia con determinati suoni che con i colori predominanti nel film a livello scenografico, fotografico o anche solo degli oggetti di scena che caratterizzano il desing e l'estetica del periodo (come l'abbigliamento, i jeans, i dispositivi tecnologici, la Volvo, ecc): il blu e il grigio. Ma restando in tema Keanu Reeves, posso dirmi anche ampiamente soddisfatto da Knock Knock di Eli Roth, torbido e moralmente ambiguo, che gioca abilmente sul concetto di preda e predatore sessuale nell'era dell'apparenza e dei social media che privano dell'umanità e trasformano tutto in un gioco. Mi ha richiamato alla mente quel piccolo gioiello di Hard Candy, seppur abbia toni e finalità differenti.
In serata o domani, cerco di scivere qualcosa sui film più interessanti, importanti o anche solo più belli visti negli scorsi mesi e in questi giorni.
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