| Pessimismo Cosmico |
| | Fino all'Ultimo Respiro di Jean-Luc Godard (1960). "Il dolore è idiota. Io scelgo il nulla. Non è meglio... Ma il dolore è un compromesso. O tutto, o niente"
È la frase che mi ha colpito maggiormente in tutta la pellicola e che il personaggio di Michel Poiccard (Jean Paul Belmondo) pronuncia ribaltando la soluzione fornita dalla citazione di un libro di William Faulkner. In questa manifestazione di pensiero, c'è l'accettazione dell'individuo autenticamente moderno che essere liberi, vuol dire raggiungere la consapevolezza che la vita è insignificante e quindi, bisogna abbracciare l'idea che la vita é nulla. Afferrato tale concetto, l'uomo moderno potrà abbandonare ogni ricerca dei tradizionali valori metafisici tipici della cultura di massa (amore in primis, attinendoci alla materia filmica). In questo dialogo però, c'è anche il rifiuto di Jean-Luc Godard di seguire le regole del cinema dei vecchi "padri" e addentrarsi nei generi cinematografi, per scardinarli e romperli dall'interno. Incasellare questo film in un genere preciso in effetti è impossibile, visto che ci si trova innanzi ad un'opera che è tutto il cinema precedente (noir, citazioni a Bogart, femme fatale etc...) e al contempo è nulla (basta vedere la rottura di tutte le regole cinematografiche).
Primo film della "nouvelle vague" che vedo questo Fino all'Ultimo Respiro (1960) e ne avevo sentito di cotte e di crude poiché Godard è etichettato in molti modi negativi e positivi, che passano dal genio e visionario, sino allo spocchioso finto intellettuale sopravvalutato che cerca a tutti i costi una contestazione formalista priva però di contenuti.
Essendoci tale spaccatura, l'unica possibilità è vedere e giudicare da sé. Devo dire che vedere tanto cinema classico americano, mi ha aiutato senz'altro, poiché quando vedi Fino all'Ultimo Respiro e fai il raffronto con le altre opere uscite quell'anno (per esempio L' Appartamento di Billy Wilder che vinse l'oscar), subito comprendi come il linguaggio e lo stile adottato da Godard sia avanguardista e rivoluzionario. Ho preferito usare queste parole e non altre come "avanti" o "migliore", perché semplicemente credo che ogni regista deve scegliere scientemente il linguaggio adatto all'opera che filma e non c'è uno stile peggiore o migliore. È indubbio che Godard nel 1960 rivoluziono' il cinema come prima di lui ci riuscirono in modo così influente solo Griffith e Welles.
Frammentazione nervosa e stasi, sono i binari su cui si dirige il film; infatti nella prima parte specialmente siamo spettatori di un grandissimo numero di jump-cut, che conferiscono alla narrazione un andamento anti-lineare e anti-narrativo. Godard elimina il superfluo, per darci l'immagine essenziale; quella che vuole lui e che risulta propria della sua visione di autore che applica scientemente le idee elaborate negli anni precedenti, come critico della rivista Cahiers du cinema. Frammentazione, scarnificazione ed essenzialità del montaggio, si esplicano in tutta la loro rivoluzionaria potenza nella famosa sequenza dell'omicidio del poliziotto dove conta l'attimo del fare e non il momento che porta ad esso, il colmare i vuoti tra le sequenze, è lasciato all'immaginazione dello spettatore che è cosciente che sta vedendo un film e non ha modo di immedesimarsi in una finzione palese che lo respinge in ogni modo e anche se ci provasse, basta lo sfondamento della quarta parete da parte di Jean-Paul Belmondo che rompe scientemente la finzione filmica. Godard quindi infrage scientemente una delle (tante) regole del cinema classico che voleva l'imparzialità dell'obiettivo della mdp. Il film però ritrova unità di tempo e luogo in alcuni momenti grazie all'uso di lunghi carrelli in piano sequenza, specie nelle scene del protagonista insieme con Patrizia (Jean Seberg), ragazza americana a Parigi che fa' la cronista. Celebre i lunghi 20 e passa minuti di dialogo (ridono, scherzano, parlano del più e del meno, zero ideali alti etc...) in camera d'albergo dove i protagonisti, vivono al chiuso estraniandosi dal mondo esterno (vi è una sola finestra), vivendo una libera e anti-etica relazione "profonda" fatta di tutto sesso e zero amore. Da notare l'idea di messa in scena di Godard, fondata sull'uso delle sole fonti naturali di luce, rompendo l'artificialita' del cinema.
Il passato di tutti i personaggi non esiste, conta solo ciò che la mdp inquadra in quel frangente, quello che c'è al di fuori sta allo spettatore unificarlo con quel che vede. La sceneggiatura scarna e l'approccio anti-narrativo potranno dare il mal di testa e allontanare molti spettatori; ma vi invito a resistere. Fino all'Ultimo Respiro gioca con il contrasto tra l'impronta realista nella tecnica con alcuni elementi di finzione con i rimandi a Bogart. C'è l'inquadratura del manifesto Il Colosso d'Argilla (1956), ultimo film di Bogart, che sancisce un po' la "morte" del cinema classico e delle regole poste alla base di esso.
Siamo innanzi ad un film dotto, cinefilo ad avanguardista, non è un film impossibile nell'approccio da parte di uno spettatore che non studia cinema (io non lo studio eppure sono sopravvissuto), ma vi avverto che è difficile, ma se entrate nel meccanismo del film, lo adorerete. È un film d'avanguardia che rinuncia ad ogni spettacolarizzazione (il finale è emblematico) ed ogni inutile orpello. Opera rivoluzionaria, anarchica e libera, in sostanza un capolavoro assoluto del cinema; alla fine Godard come lo scrittore con questo film ha raggiunto la più grande ambizione della sua vita; "Divenire immortale… e poi morire". Il Disprezzo di Jean Luc-Godard (1963). Al liceo la mia professoressa d'italiano, con un suo pensiero ci distrusse l'aura romantica che per noi studenti rappresentava l'Odissea e le lunghe peripezie di Ulisse per arrivare ad Itaca dalla sua amata Penelope. Ulisse passa 10 anni in guerra e altri 10 nel lunghissimo ed interminabile viaggio verso casa; ma una domanda sorge spontanea... Ulisse ad Itaca aveva tutta questa fretta di tornarci? Ad un'analisi più approfondita dei fatti assolutamente no, perché tra viaggi che appagano la sua infinita sete di conoscenza e tante avventure amorose, Penelope era l'ultimo dei suoi pensieri, ed in effetti. Facciamo che ad inizio della sua partenza per Troia, sua moglie aveva sui 20 anni, al suo ritorno ad Itaca ne doveva avere sui 40... insomma non è che a casa ad Ulisse l'attendesse tutta questa felicità visto che Penelope era invecchiata senz'altro. Godard si pone il medesimo problema nel suo film Il Disprezzo (1963), dove lo sceneggiatore Paul (Piccoli) e sua moglie Camille (Bardot), sono i novelli Ulisse e Penelope, alle prese con una forte crisi coniugale poiché la moglie disprezza fortemente il marito, che tollera le avance del produttore americano Prokosh (Palance), nei suoi confronti, sperando di ottenere vantaggi per la sua carriera normalizzando con le sue revisioni sulle sceneggiature gli slanci avanguardistici dei registi innovativi e protraendo l'agonia del vecchio cinema, nei confronti di una nuova concezione cinematografica che avanza.
Incomunicabilità tra uomo e donna (e in generale tra esseri umani vista anche la babele linguistica), ma anche un'invettiva non celata, contro il cinema commerciale rappresentato dal produttore americano Prokosh. Questa figura è interessante, poiché affida a Fritz Lang i quattrini per dirigere un adattamento dell'Odissea di Omero. Giustamente Lang ne ha tirato fuori un'opera di pura immagine (che per il regista tedesco, ha più importanza della parola) e questo, fa' temere un insuccesso commerciale clamoroso. In sostanza chi finanzia l'arte, non è in grado di capirla (e ci può stare), ma è anche così miope da distruggere con le proprie mani ciò che di bello ha contribuito a far creare e affidare una riscrittura della sceneggiatura a Paul che per soldi, si svende ad un compromesso e contribuisce a distruggere ciò che di unico aveva creato Lang. Interessante notare, che neanche il produttore sa' bene su cosa deve intervenire Paul per rendere l'opera più appetibile per il grande pubblico. In sostanza, il cinema industriale è vittima di un cortocircuito capitalista, che anche se finanzia film realizzati da autori controcorrente, utilizza altri soldi e altra manovalanza, per distruggere le pellicole che non si conformano ad una data visione di cinema (basta vedere la vetrata blu della villa a Capri che "filtra" il paesaggio della scogliera).
Nel mezzo siamo protagonisti di una forte crisi coniugale tra Paul e Camille. Il primo ha svenduto tutte le proprie idee al compromesso, e spesso passeggia tra le rovine di set cinematografici in decadenza e strade divorate dalle piante ed erbacce, che egli ha contribuito a creare con la sua attività distruttrice dell'arte cinematografica. Paul sa' che sbaglia e vorrebbe liberarsi da questo giogo (vedasi la tessera del Partito comunista italiano), ma è attratto dal soldo e per essi, non esita a far cortegiare la moglie dal produttore (Weinstein è sempre esistito in ogni tempo). Camille è al limite della sopportazione ed invita Paul a non andare a Capri, perché conscia che ciò sancirebbe la fine della relazione. Come Ulisse era attratto dalle sirene, Paul è attratto dalla prospettiva del produttore di raggiungerlo lì; d'altronde l'isola di Capri si dice che assomigli ad una donna distesa sul mare... il simbolismo con le sirene, risulta molto evidente. Girato con l'ausilio di numerosi piani sequenza che dilatano le sequenze all'inverosimile, tanto da dare un'aspetto onirico, straniante e alienante alla messa in scena (grazie anche ad una colonna sonora ad arpa suggestiva) che si avvale di cromatismi ricercati e geometrismi astratti nelle scene in interna. Certo, abbiamo qualche logorroico intellettualismo di troppo nei dialoghi (non amo le citazioni prese pari pari dai pensatori... a meno che non abbia letto l'opera, perché è come se il regista rendesse necessaria una conoscenza pregressa delle fonti extra-filmiche da parte dello spettatore per capire il film), atto a compiacere il narcicismo del regista. È indubbio che vista la mutilazione a cui venne sottoposta del produttore Ponti, che non avendo fiducia nel pubblico, accorcio' di 20 minuti il film e sfascio' mezza pellicola nell'edizione italiana (ho visto solo quella francese integrale, non anche l'edizione italiana presente nel dvd), il risultato da noi fu un bel floppone. Si può dire che Godard abbia rappresentato in pieno nel film il destino della sua opera. ... e Tutti Risero di Peter Bogdanovich (1981). Peter Bogdanovich è stato il primo regista americano a provenire dal mondo della critica, non a caso venne definito il Truffault americano. Dopo aver realizzato un capolavoro assoluto come L'Ultimo Spettacolo (1971), il regista era oramai in ascesa e per tutti gli anni 70' ha continuato a realizzare capolavori o ottimi film per lo più. Verso la fine del decennio pubblico e critica, cominciano a poco a poco a voltargli le spalle ed il regista dovette lottare con il coltello tra i denti per realizzare i suoi film. ... e Tutti Risero (1981), con i problemi derivati ed il fallimento al botteghino per via di una distribuzione fallimentare e scarna, segna la fine di Bogdanovich e la rottura con i produttori, tanto da divenire simbolo della fine della New Hollywood, insieme a film come Cruising, I Cancelli del Cielo, Un Sogno Lungo un Giorno, La Cosa e Blade Runner.
New York. I detective privati John Russo (Ben Gazzara) e Charles Rutledge (John Ritter), specializzati nel pedinare mogli fedifraghe, finiscono per innamorarsi di Angela (Audrey Hepburn) e Sam (Patti Hansen), due donne su cui dovevano indagare.
Siamo innanzi ad una commedia romantica, che pesca appieno dalle atmosfere della screwball comedy degli anni 30', con un occhio in particolare ad Howard Hawks. Abbiamo dei detective che pedinano donne, ma sono fatalisticamente destinati ad esserne innamorati, intrecciando con loro delle brevi, quanto intense e precarie relazioni destinate a concludersi. Si ride meno rispetto ad altri film del regista, questo è vero, ma lo spirito anarchico nella forma, situazioni, nei dialoghi frizzanti e nella dissacrazione del matrimonio e della famiglia creano un'opera decisamente affascinante che non si meritava affatto il destino nefasto a cui andò incontro.
Peter Bogdanovich, che sia un raffinato regista, lo si scopre già nei primi 5 minuti, dove senza neanche una parola, riesce a mostrare l'essenza e la vitalità pulsante delle persone che vivono a New York, grazie alla tassista che accompagna il personaggio di Ben Gazzara. Un'opera leggera, ma che è piena di vita ed è indicativo di questo, le sequenza dedicata al pedinamento di Angela da parte dei due detective, ripresa con una macchina a mano piazzata nei posti più disparati e che si muove anarchicamente come il detective che indossa i pattini a rotelle. In sostanza, siamo innanzi ad un bel girotondo sentimentale, dove inseguitori ed inseguiti, si scambiano di continuo.
Bogdanovich non si esime dal suo solito coute' di citazioni al cinema di una volta, visto che per il regista tutti i bei film sono già stati fatti. La storia d'amore tra Ben Gazzara e Audrey Hepburn ci fu' veramente nella realtà e quindi la loro intesa sullo schermo è perfetta (il regista stando a ciò che disse in Chi c'è in quel film?, sembra che prese l'idea di fare questo film, dopo che Gazzara gli raccontò di essere innamorato della Hepburn); ma nel mondo filmico il rimando a Vacanze Romane è evidente, tanto che la circolarità finale del film con l'elicottero, non è altro che un aggiornamento intelligente agli anni 80' del finale nel palazzo Colonna tra Gregory Peck e Audrey Hepburn, tanto che il regista sembra dirci che restare sul classico non è una mera scelta conservativa, ma se un modello funziona, è inutile modificarlo, perché ci sono delle situazioni o dei generi, che vivono della loro classicità e stravolgerli tanto per fare gli originali, porta per lo più a compiere disastri. Il personaggio più riuscito del film però, a mio avviso è la tassista Sam (Patti Hansen), che sembra quasi essere un'incarnazione metafisica della metropoli di New York.
Come alcuni sapranno, la Stratten venne uccisa poco dopo le riprese dal marito geloso e questo portò il rifiuto dei produttori a voler distribuire il film, che andò incontro al fallimento e Bogdanovich ne uscì finanziariamente a pezzi economicamente e con una carriera praticamente distrutta. In tempi recenti, dopo la pubblicazione in DVD che ha fatto riscoprire questa otiima pellicola, registi come Quentin Tarantino e Wes Anderson, hanno elogiato con ottime recensioni questo film, anche se pesa ancora come un macigno su quest'opera, il 33% su un sito come Rotten Tomatoes. Per me è una bestemmia, ma capisco che i fanatici degli aggregatori online come RT, metacritic, imdb etc... possano avere delle forti remore nel vederlo. Sabrina di Sidney Pollack (1995). Da che parto? Non saprei... vediamo un pò... iniziamo dalla semplice quotidianetà, non mi sentivo molto bene e quindi facevo zapping sui vari canali e m'è capitato su Rete 4 un film che era appena iniziato. Dopo i primi minuti ci stavo rimuginando sopra e quelle che m'erano parse delle citazioni al capolavoro Sabrina di Wilder (1954), stavano diventando veri e propri plagi, così schiaccio il tasto informazioni e nel modo più imprevedibile possibile, ho scoperto che anche Sabrina a metà anni 90' ha avuto un remake (ma i titoli di testa del film, poco dopo menzionano chiaramente ciò. In sostanza m'ero scordato che Colonel blimp mi aveva accennato a questo film) e per di più girato da Sidney Pollack (che evidentemente aveva dei debiti con la mafia o altro), non un regista da storia del cinema, ma comunque uno che sapeva il fatto suo e negli anni 70' ha realizzato anche dei bei film niente male. Oramai il film era iniziato e così tanto valeva concluderlo, possibilmente pensando al meno possibile al film di Wilder perchè volere è potere... purtroppo il detto non corrisponde alla realtà e dopo 10 minuti questo proposito era perso in partenza.
Tra un perchè di quest'operazione ogni 10 minuti e il ricordo ogni 5 minuti degli interpreti del film originale, stancamente sono giunto alla fine di questo film ed il verdetto è che Pollack ha confezionato un film inguardabile. Non voglio intervenire nel dibattito remake si e remake no; non mi interessa, anche se la sfida era già persa in partenza, poichè il capolavoro Wilderiano a distanza di 40 anni (il remake è del 1995) non aveva perso alcuno smalto; anzi, è come il vino, più invecchia e più lo adori (ed infatti anche nel 2018 è un film praticamente perfetto). La trama ricalca l'originale più o meno fedelmente, ma con qualche piccolo (ma enorme) cambiamento che secondo Pollack serviva ad "aggiornare" (cosa?) il film di Wilder agli anni 90'. Il difetto principale è che il regista ha deciso di eliminare l'atmosfera fiabesca; se ben ricordate la forza del film di Wilder era di essere una fiaba dichiarata non solo a parole (vi ricordo l'introduzione iniziale della voce fuori campo "C'era una volta"), ma anche nell'atmosfera grazie anche alla bellissima fotografia di Charles Lang. Pollack elimina questo e quindi praticamente ammazza Sabrina prima ancora di cominciare, poichè non è minimamente credibile che una ragazza dopo 2 anni a Parigi dove si è realizzata in tutto e per tutto come fotografa di moda (eh si, la cuoca non andava più bene, perchè non fà ragazza emancipata evidentemente... in pratica in caso di regresso dell'umanità a tempi bui, sapremo scattare belle fotografie ma moriremo di fame); e per di più ha una storia con un fotografo francese (con cui và anche a letto!), alla fine risulti ancora interessata a David. Nel vecchio film l'atmosfera fiabesca rendeva credibile i sentimenti di Sabrina verso David anche a distanza di anni (oltre a fatto che Wilder da bravo furbacchione, ha omesso di raccontare troppo in dettaglio il soggiorno a Parigi di Sabrina... Pollack commette questo errore e cade in una pesante incongruenza).
In sostanza se il film di Wilder mi faceva sognare, il film di Pollack ci mette ben poco a deprimermi. Per il resto il regista ci mette anche di suo per affossare il film con un ritmo pachidermico, dei dialoghi indecenti ("David è bello, il più bello di tutti", "Ho vissuto una vita non mia, aiutami mia dolce Sabrina"... Wilder dei dialoghi così imbecilli non li avrebbe mai scritti e in caso l'avrebbe fatto, Audrey Hepburn e Humprey Bogart, per dignità personale si sarebbero rifiutati di recitare queste battute), un' estetica da soap opera, una cattiveria inesistente (la madre ha dei rimorsi su come possa sentirsi Sabrina dopo la mossa di Linus di mollarla a Parigi... ammazza che donna dal cuore tenero; la vecchia madre del film originale, a Sabrina l'avrebbe spedita a Parigi in un pacco postale in manco 2 secondi) e degli attori che mi spiace per loro, non reggono il confronto.
Billy Wilder nel libro intervista su Crowe, c'è andato giù pesante su Julia Ormond, definendola poco elegantemente un pesce lesso; c'è da dire che Audrey Hepburn pur sfogiando una grande intepretazione (ma non all'altezza di quelle da Storia di una Monaca in poi), è un mito contro cui scontrarsi è impossibile per chiunque, indipendentemente dalle doti recitative (anche una grande attrice come Julie Binoche che volevano scegliere per il ruolo e saggiamente rifiutò, ne sarebbe uscita sconfitta); poichè come disse Wilder "Quell'abito Ginvenchy è indossato per sempre dalla vera Sabrina", quindi anche se Ormond riesce a non imitare la Hepburn (ritrae una Sabrina più indipendente; è la sceneggiatura e la regia che la penalizzano a mio modo di vedere), ne esce umiliata perchè è una bellezza ordinaria, invece la grazia e l'eleganza di Audrey Hepburn erano semplicemente uniche, originali e inimitabili; per questo a distanza di decenni Sabrina resta uno dei personaggi che ne hanno fondato il mito e la rendono ancora amata e celebrata anche nel nuovo millennio. Non bisogna dimenticarsi che la pellicola Wilderiana, aveva un trio di protagonisti che si completavano a vicenda; ed infatti oltre alla Hepburn, avevamo il mito di Casablanca, Humprey Bogart, che viene qui rimpiazzato da un imbolsito quanto macchiettistico Harrison Ford (che m'è sembrato veramente vecchio per la parte... altro che Bogart) e William Holden; divertente nei panni dell'eterno playboy superficiale che si cucca donne su donne e qua è sostituito da un Greg Kinnear che non si sà perchè, non solo sia ammirato da tante ragazze, ma anche perchè la protagonsita lo preferisca a Ford; in sostanza un casting totalmente sbagliato.
In sostanza come potete ben comprendere, questo remake è un vero e proprio pastrocchio senza forma (le immagini non reggono il confronto) e sopratutto senza anima (quel finale così smorto e senza passione alcuna, la dice tutta sull'inutilità dell'operazione). Una grande delusione, perchè comunque c'era Pollack dietro, l'avesse diretto il direttore della fotografia della seconda unità di Panarea di Castellano e Pipolo, c'avrei creduto, ma Pollack no. Un remake avrebbe senso se l'originale ha mal sfruttato il soggetto alla base, o comunque vuoi stravolgerlo con una sensata ed opportuna rivsitazione personale; in questo caso, non abbiamo nessuno dei due casi e quindi la sconfitta per Pollack è totale, ma c'è anche da dire che se anche non fosse esistito il film originale, i dialoghi terribili (e non puoi permetterti di sbagliare questo punto) e la scarsa gestione del ritmo da parte del regista, affossano la pellicola, la quale non ebbe molto successo al botteghino all'epoca. Pure la critica tiene in scarsa considerazione il film (Mereghetti lo bastona con 2 stelline), ma ci sono alcuni che invece non lo considerano poi male come Morandini, che gli dà 2.5 stelline definendolo all'altezza dell'originale e aggiornato nei punti giusti (per onor di cronaca a parte non essere d'accordo minimamente, c'è da dire che Morandini non ammira molto neanche la pellicola di Wilder a cui dà 3 stelline). Robin e Marian di Richard Lester (1976). A fine anni 60' ad Orson Welles, venne rivolta una domanda riguardanti i registi di nuova generazione che considerava più interessanti e il maestro rispose Stanley Kubrick e Richard Lester. Del primo regista avevo visto tutto (perché altrimenti sei escluso dai circoli che conta a quanto sembra), invece del secondo non avevo visto nulla e quindi, dovevo decisamente rimediare e dopo qualche film suo visto, ho finito con il recuperare questo Robin e Marian, che è decisamente affascinante.
Di trasposizioni su Robin Hood ve ne sono a bizzeffe; ma questa di Lester è l'unica che ha senso di esistere dopo La Leggenda di Robin Hood di Curtiz (1938), per svariati motivi. In primis il fatto che il regista è l'unico ad aver detto qualcosa di nuovo sul personaggio, mettendo in scena una sorta di 20 anni dopo con i personaggi invecchiati e oramai segnati non solo nell'aspetto, ma anche come maturità , poiché le illusioni e gli entusiasmi giovanili, sono stati spazzati via dall'inesorabile scorrere del tempo. Robin (Sean Connery totalmente diverso dai suoi ruoli da duro alla James Bond), oramai ha oltre 40 anni ed ha passato 20 anni al servizio del Re Riccardo Cuor di Leone, un sovrano che credeva buono e giusto e che invece qua viene ritratto in modo tremendamente negativo nella sua follia bellica priva di senso (ha ucciso e massacrato donne e bambini, e nonostante questo, Robin e Little John lo hanno sempre seguito stupidamente), nonché di risultati tangibili (Scott non ha inventato nulla di nuovo in pratica) e che risulta quindi molto più vicina alla realtà storica di quello che doveva essere questo sovrano, piuttosto che la figura edoculturata e integerrima che la leggenda ci ha tramandato. La poetica di Richard Lester consiste nel prendere dei personaggi o elementi fortemente radicati nella cultura pop, per smitizzarli della propria essenza, destrutturarli ed infine riplasmarli in una nuova forma che lungi dal ridicolizzarli come qualcuno ha affermato, finisce incredibilmente per mettere in gioco la loro essenza umana.
Robin Hood in questo film ha più di 40 anni, è un uomo segnato dal tempo nell’aspetto; capelli che cadono, cicatrici ovunque, barba e difficoltà a compiere determinate azioni (vedasi la lunga e faticosa scalata delle mura, ma anche lo sfiancante duello finale con lo sceriffo), ma in fondo è ancora un ragazzino, che nonostante inizialmente voglia solo la pace, alla fine è vittima della sua leggenda e finisce con il capeggiare una rivolta antisistema contro l'oppressione verso il nuovo re Giovanni e il suo scagnozzo, lo sceriffo di Nottingham che non vede l'ora di regolare dopo 20 anni i conti con il suo acerrimo nemico. Da contraltare a Robin Hood, abbiamo Marian (Audrey Hepburn che ritorna al cinema dopo 9 anni e a livello recitativo non ha perso alcuno smalto), che sono anni che è una suora, perché non ce la faceva più a convivere con il ricordo del suo amato che era partito. Sposarsi a Gesù però, non le ha permesso di cancellare i suoi ricordi passati e al ritorno di Robin Hood, la donna dovrà tener conto del fatto che anche lei svolge un ruolo fondamentale nella leggenda dell'arciere di Sherwood, e la sua fuga da ciò che il suo personaggio simboleggia, non può durare a lungo dopo il suo ritorno in Inghilterra. Marian è invecchiata anche lei, ma non può celare dietro il suo rancore per Robin, il profondo amore che nutre per lui, poiché è portatrice di un sentimento che và oltre la mera carne, perché il legame tra questi due personaggi, risulta colmo di un amore che trascende i loro corpi. Marian è stanca delle continue battaglie di Robin, ma la lotta è l'essenza stessa dell'arciere di Sherwood; tutto questo non può che portare ad un forte scontro tra due vedute e progetti, diametralmente opposti (lotta e nuove avventure contro il desiderio di una vita stabile) e quindi Robin e Marian, non sono destinati ad amarsi in Terra ma, come la struggente e poetica dichiarazione finale di Marian (che commuoverebbe anche un sasso per quanto è bella) al suo amato ci suggerisce, la loro unione si farà epitaffio nell’eterna leggenda che andrà oltre le loro esistenze terrene, per consacrarsi come mito immortale.
Robin e Marian risulta epico, malinconico, platonico, poetico, romantico, postmoderno, ironico, crepuscolare e definitivo, grazie alla meravigliosa regia di Richard Lester che riesce ad unire tutti questi ingredienti in una miscela che magari non sempre è perfetta, ma che alla fine produce un risultato unico ed originale. Con una semplicità disarmante, il regista riesce a scavare a fondo nei personaggi e nella situazioni, riuscendo a riassumere concetti complessi ed arditi, con poche inquadrature. L'esempio più significativo è la scena iniziale, dove il regista tramite un piano sequenza, ci mostra dei soldati che assediano un castello e dopo un duro lavoro per estrarre una pietra dal terreno per caricarla sulla catapulta, ciccano clamorosamente il bersaglio delle mura poiché hanno sbagliato il calcolo della gittata; in sostanza, il regista smaschera l'assurdità del folle gioco della guerra con un'immagine dissacrante di una catapulta che scaglia il masso a neanche 6-7 metri di distanza (l'assedio poi si scoprirà essere stato completamente inutile). Di sequenze così il film ne è pieno, poiché Robin e Marian è un film dall'andamento lento, riflessivo, meditativo, contemplativo e aventi dei dialoghi di ottimo spessore; per questo motivo è una pellicola divisiva e fortemente pregna del revisionismo anni 70'. Un film del genere spiazzo' pubblico (fu poco più di un discreto successo) e critica che rimase spiazzata innanzi a questo film (Maltin e Ebert, critici dabbene gli danno 3 stelline) e su imdb ha una media del 6.6 (più bassa dei successivi film di Robin Hood ad esso inferiori). Non nego che abbia spiazzato anche me, perché il lavoro di Lester forse è anche sugli attori che interpretano i personaggi (Audrey Hepburn che dice và al diavolo... non è da Audrey Hepburn), ma chissà che in futuro non possa aumentare con future revisioni, il mio gradimento verso tale opera. La Stangata di George Roy Hill (1974). La Stangata è quello che si dice un classico del cinema e a distanza di oltre 40 anni dalla sua uscita al cinema, viene continuamente riprogrammato. Di sicuro è il film più conosciuto di George Roy Hill, regista dell'ottimo Butch Cassidy (quello meritava qualcosa come premi forse). Non è un film malvagio per carità, ma dopo la visione posso dire che 7 oscar sono assolutamente esagerati e non meritati, poiché alla fine è solo un buon film d'intrattenimento e nulla più.
Una coppia di delinquenti deruba per sbaglio il corriere di un boss delle scommesse. Quando uno dei due viene ucciso, il socio in fuga Johnny Hooker (Robert Redford) raggiunge l'amico del morto, Henry Gondorff (Paul Newman). I due architettano una truffa in grande stile ai danni del boss Doyle Lonnegan (Robert Shaw), facendogli credere di poter vincere grosse somme ai cavalli.
Il regista, come già nel suo precedente lavoro, riesce a mescolare abilmente commedia, thriller e gangster, grazie ad una buona ricostruzione dell'america degli anni 30' in piena depressione e che fatica ad uscire dal baratro in cui sprofondo' nella crisi del 1929. La storia ha discreto ritmo e la chiara simpatia del pubbluco verso Johnny Hooker (Robert Redford), truffatore di strada ma in fondo con una certa etica di fondo, hanno assicurato il successo del film. In effetti Redford con la sua faccia, dava rassicurazione alle platee dell'epoca; pur essendo un truffatore e pur volendo vendicare il suo mentore ucciso, si dichiara incapace di uccidere. In sostanza, seppur vive nell'illegalità ed è si fa' portatore della disillusione degli anni 70', non solo ha dei valori positivi nascosti, ma alla fine punisce chi è peggio di lui (il boss Lonnegan). Il personaggio che finisce con il conquistare maggior attenzione è quindi quello di Henry, interpretato dal carismatico Paul Newman (che straccia Redford nel confronto attoriale), autore della sequenza registicamente più interessante di tutto il film; la partita a poker in treno contro Robert Shaw (specializzato in villain), dove mette in mostra in pochi minuti tutte le sue abilità di attore passando dalla serietà, alla presa in giro, sino alla farsa sopra le righe.
Pur essendo in piena New Hollywood quindi, La Stangata è un film in tutto e per tutto di impianto classico. Vedendo la concorrenza in ambito gangster, Johnny ed Henry, non raggiungono minimamente le vette di profonda caratterizzazione psicologica dei personaggi del Padrino uscito l'anno precedente; così come la regia di Hill non vale neanche 1/100 di quella di Coppola. Alla fine abbiamo un buon film d'intrattenimento con un discreto ritratto di amicizia maschile (ma tale aspetto era trattato molto meglio nel precedente Butch Cassidy, sicuramente più rivoluzionario), che però risulta una mosca bianca nel pieno della New Hollywood, ma comunque realizzò un incasso stratosfetico grazie alla professionalità dei suoi partecipanti e ad una colonna sonora indimenticabile. Invecchiato, ma ancora buono. Provaci ancora, Sam di Herbert Ross (1972). Visto su consiglio di Papermoon. Woody Allen lo conosco poco, di suo avrò visto al massimo 7 film se con erro, e solo 3-4 mi sono piaciuti molto e solo due capolavori, per il resto non è che mi abbiano detto moltissimo, compreso l'isterico film La Ruota delle Meraviglie (2017), tanto massacrato negli USA, quanto immotivatamente ossanato in Europa per 2-3 giochini con le luci di Storaro. Comunque, in Provaci ancora, Sam siamo ancora nella fase puramente comica della carriera del regista stando al giudizio degli studiosi del regista, ma sinceramente il film l'ho gradito e non poco.
Humphrey Bogart (Jerry Lacy); il mito di Casablanca, Sam Felix (Woody Allen), critico cinematografico in depressione dopo il divorzio dalla moglie Nancy (Susan Anspach), cerca conforto nell'amico Dick (Tony Roberts), compagno di Linda (Diane Keaton), con la quale instaura un rapporto sempre più intimo.
Una commedia romantica girata da Herbert Ross, ma in cui l'influsso e la mano di Woody Allen si sentono ben oltre la mera recitazione, visto che la messa in scena (oltre che la sceneggiatura) è tutta sua (pare che diede veri e propri consigli a Ross). La carta vincente sta nell'unire non solo vari tipi e stili di comicità passando dalle gag puramente fisiche, a situazione surreali (Bogart), sequenze di fantasia onirica, fino a vere e proprie gag brillanti. Il ritratto che ne esce, è quello di una società americana, in preda alle nevrosi e allo stress nel relazionarsi con il prossimo, tanto che per fare ordine nella propria mente, và costantemente dalle psicologo che fornisce l'origine dei loro problemi, ma alla fine mai le soluzioni, con il risultato di trovarci innanzi ad individui che disquisiscono di tutte le scemenze culturali possibili, ma alla fine dipendono in toto dalle cazzate psicanalitiche sulle loro turbe psichiche, perché alla fine non hanno fiducia in sé stessi; la chiave di lettura del film sta nel cogliere questa cosa. Il messaggio può apparire banale o meglio ancora, "semplice", ma la genialità della sceneggiatura sta nel rendere concreta questo elemento.
Sam Felix è un individuo troppo complicato rispetto all'essere umano medio, che a differenza sua preferisce fare le cose e non guardarle prima. In effetti il critico s'è scelto un modello maschile niente male; Humprey Bogart. In effetti chi meglio del mito di Casablanca si intende di donne? Lungo la sua carriera, s'è cuccato le più belle attrici; Ingrid Bergman, Lauren Bacall, Audrey Hepburn e così via. Il fatto che Bogart (cazzo l'attore è uguale a Bogart, dove l'hanno preso?) sia la proiezione di Sam, è un chiaro sintomo della virilità che il protagonista sente mancare in sé (ora mi improvviso psicanalista da due soldi pure io). Linda gli dice che Bogart è un modello troppo elevato, ma è anche vero che come dice Sam, che non servirebbe a nulla a prendere come riferimento un portinaio... sennò che modello sarebbe? Dopo aver visto Bogart in Casablanca, tutti noi maschi una volta nella vita avremo sognato di essere fighi come lui in quel film.
Bogart però era protagonista di un modo di fare cinema, dove contava il fare le cose (d'altronde parlava per frasi fatte in Casablanca), mentre negli anni 70' le psicologie si fanno più profonde e tridimensionali e quindi, le maschere monodimensionali, non andavano più bene (Sam davanti alle donne si costruisce sempre una maschera) e quindi quest'approccio è fallimentare. Non a caso l'unica donna con cui a poco a poco involontariamente lega, è Linda (una Diane Keaton dolcissima senza mai risultare stucchevole, molto brava), poiché non solo risulta essere sé stesso, ma alla fine compie un corteggiamento discreto e naturale, unendo il guardare con il fare (successivamente). La sequenza migliore è a casa sua quando viene Linda, e Bogart dà a Sam una marea di consigli tramite un frasario di battute fighe e cool con cui fare colpo sulla ragazza (e quante risate); per la serie, anche le donne complicate con 4 frasi piazzate al momento giusto cedono (c'è anche un dialogo interessantissimo e colmo di ironia sulla violenza sessuale... al giorno d'oggi in clima di isteria da metoo non sarebbe possibile riproporlo). In sostanza un ottimo film, che si fa' specchio dell'analisi dell'amore nella sua epoca e al contempo è un omaggio (esplicito nel finale) a Casablanca e al suo immortale interprete, Humprey Bogart. Lo Splendore nell'Erba di Elia Kazan (1961). Di Elia Kazan non avevo visto nulla sino a questa pellicola, ma sapevo che a livello umano tale regista è quello che definirei poco più di merda distillata, visto che per avvantaggiare sé stesso, rovino' la vita o molti suoi colleghi (anche quelli che con il comunismo nulla avevano a che fare). Qualità umane inesistenti a parte, purtroppo quando vedo un film, devo valutare questo e non la discutibile persona che lo dirige e Lo Splendore nell'Erba, risulta un piccolo capolavoro che ha fatto scuola.
Visto al giorno d'oggi, può risultare datato in alcuni aspetti sia terminologici (non si citano mai le parole come sesso, aborto o riferimenti alla contraccezione) che situazionali (i personaggi "libertini" alla fine o vengono pesantemente puniti, oppure rientrano all'ordine); in sostanza vince l'ordine e il conservatorismo sociale della visione del regista, nulla di male, ognuno la pensa come vuole, ma ovviamente la carica scandalistica che poteva avere all'epoca, oggi risulta meno d'impatto.
Kansas, 1928. I liceali Bud (Warren Beatty) e Deanie (Natalie Wood) si amano alla follia, ma le rispettive famiglie, le regole puritane della società e un destino ironicamente crudele finiranno per compromettere in modo drammatico la loro unione.
«Se niente può far che si rinnovi/all'erba il suo splendore e che riviva il fiore/della sorte funesta non ci dorremo, ma ancor più saldi in petto/godrem di quel che resta». I versi di William Wordsworth, tratti dall'Ode all'Immortalità, sono letti con una forte carica emotivo-passionale da una Natalie Wood nel suo splendore adolescenziale, che avrebbe fatto piacere al poeta, consegnando il film all'immortalità, poiché esplicano appieno il nucleo tematico della pellicola basata sul passaggio dell'adolescenza all'età adulta e la conseguente maturazione sessuale dei due protagonisti.
Kazan riesce ad evitare la verbosita' tipica di tanti melodrammi ad ambientazione nel profondo sud degli Stati Uniti (molti erano tratti dalle opere di T. Williams) a favore di scene di grande impatto figurativo come nella prima sequenza del film dove Bud vorrebbe fare sesso, ma la pudica Deanie lo respinge nonostante la scelta di farlo non venga percepita per forza come giusta; il panorama delle cascate che scorrono impetuose in effetti suggerirebbero alla ragazza di seguire la natura e lasciarsi andare, poiché finirebbe con l'assecondare un istinto naturale.
L'irruenza giovanile, viene però repressa dalle regole sociali che vogliono sopprimere le esigenze umane, a favore di regole e convezioni sociali di stampo morale. A Bud Stamper viene prospettato dal padre un matrimonio riparatore in caso "metta nei guai" la sua fidanzata, mentre Deanie è costretta a comportarsi rispettabilmente come una brava ragazza inibendo le sue pulsioni e al contempo frustrare le voglie sessuali del povero Bud deciso ad andare oltre i meri baci.
Un esempio di ragazza totalmente libera da ogni inibizione è la sorella di Bud, Ginny, che a seguito di uno scandalo, venne costretta dalla famiglia Stamper a rientrare nel paesino ed é soggetta alle chiacchiere moraliste del paese. Ginny però continua a comportarsi come prima e comunque sia, non viene vista in modo positivo mell'ottica filmica, poiché porterà ad una crisi tra Bud e Deanie, poiche il ragazzo è frustrato dal fatto che non può lasciarsi andare con la sua ragazza come invece fa' la lasciva Ginny, pena subire le conseguenze negative del suo comportamento.
Che il film sia destinato ad andare mano a mano verso il disfacimento umano dei vari personaggi lo sappiamo fin da subito visto che é ambiantato nel 1928 e la famiglia povera di Deanie, possiede azioni di grosso valore che aumentano di prezzo giorno dopo giorno, memtre la famiglia Stamper possiede pozzi di petrolio e svariati investimenti. Lo spettatore più attento sa' benissimo che nel 1929 con il crollo della borsa di New York tutto questo benessere apparente che nell'inquadratura con le luci ai bordi a mo di cornice, troverà l'ultimo ed illusorio quadro rappresentativo, che verrà spazzato via dall'apocalisse finanziaria del Giovedì Nero con migliaia di persone che avendo perso tutto si butteranno dalle finestre; la fine del sogno americano e dell'accumulo materiale in Terra che non tiene conto delle ragioni del cuore e degli affetti umani.
Eloa Kazan è amche un grandissimo direttore di attori; Warrean Beatty rende benissimo il suo personaggio sconfitto dalle norme sociali ed incapace di ribellarsene, ma la migliore è l'eterea Nataloe Wood nell'anno del suo massimo splendore non solo fisico, ma anche di fama (farà West Side Story quell'anno) e soprattutto recitativo. Il ruolo di Deanie è la sua miglior perfomance della carriera; poiché si destreggia su un confine labile tra repressione puritana e voglia di lasciarsi andare, vontrasto tra due visioni di vivere la vita che la porterà nel baratro di una crisi emotiva per poi sprofondare nella follia. Eterna ragazza, oppure donna? Deanie non è né l'una, né l'altra a questo punto, ma nel finale forse abbiamo a che fare una donna che è entrata nel mondo dei grandi, e oramai s'è lasciata alle spalle le sue fantasie o meglio, le sue illusioni adolescenziali come ci suggerisce il significato della poesia. Meritava l'oscar? La concorrenza era fortissima visti i nomi... ma forse meritava di portare la statuetta a casa visto che é un elemento che rende il film ancora molto fresco al giorno d'oggi. Purtroppo dopo quell'anno, Natalie Wood farà si e no 2-3 film interessanti, prima di essere spazzata via dalla New Hollywood (che con la profonda rappresentazione psicologica data in questo film, ha anticipato fi almeno 7-8 anni) e farà film di scarso valore, sino a morire a poco più di 40 anni.
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