Visti nell'ultimo periodo.
Hotel Transylvania 2 di Genndy Tartakovsky. Simpatico sequel del più riuscito e divertente predecessore, si lascia guardare altrettanto piacevolmente per l'escalation di situazioni che giocano come sempre con il ventaglio di cliché sui mostri. Per svagarsi con estrema leggerezza.
Sausage Party di Greg Tiernan e Conrad Vernon. Molto meno scemo di quanto immaginassi, dato che presenta più di qualche idea interessante nella creazione della vita e delle disavventure dei prodotti alimentari, ma pur sempre una classica commedia demenziale americana nello stile di Seth Rogen, Jonah Hill, James Franco e compagnia, che se da una parte diverte sempre e comunque, dall'altra non fa che riproporre nell'ennesima versione la solita comicità giocata su riferimenti sessuali e doppisensi, in questo caso anche soprattutto visivi, sfruttando in questo senso il disegno animato.
Kubo e la Spada Magica di Travis Knight. Livello altissimo dal punto di vista tecnico ed estetico, ormai firma inconfondibile della Laika, per un film che parte estremamente bene, con un primo atto particolarmente raffinato ed uno sviluppo narrativo nel quale brillano un paio di sequenza visivamente eccelsa, ma nel terzo atto la povertà della narrazione presta il fianco e mostra tutte le sue debolezza, soprattutto in quanto la risoluzione viene gestita in maniera superficiale, banalizzando un po' il tutto. Resta comunque una visione più che piacevole per quel che di buono presenta al suo interno.
Piano Forest di Masayuki Kojima. Tratto dall'omonimo manga, una storia di formazione che passa attraverso l'amicizia/rivalità tra i due protagonisti, Shuhei e Kai, estremamente diversi per quanto riguarda l'approccio alla vita, rappresentato nello specifico attraverso l'approccio al pianoforte, ma accomunati ed uniti dalla stessa passione per la Musica. Il film è quindi costruito sul rapporto e sulla dicotomia tra i due ragazzini, un confronto tra due personalità e status sociali diametralmente opposti che risulta essere un fattore di crescita per entrambi. Minimalista nella messa in scena e sommesso nella regia, si presenta estremamente curato quando si tratta di rappresentare l'esecuzione musicale, con animazioni che ricreano molto fedelmente i movimenti delle dita sui tasti del pianoforte, e la colonna sonora, a cui ha collaborato il pianista Vladimir Davidovič Aškenazi, contribuisce a calare nell'atmosfera surreale del magico pianoforte nella foresta, ma l'approccio minimale non si traduce quasi mai in quella delicatezza estetica capace di esplodere nella migliore tradizione della visionarietà poetica del Sol Levante, dando più la sensazione di un lavoro con pochi mezzi a disposizione che riesce comunque, nel suo piccolo, a raccontare in maniera semplice e piacevole una bella storia di formazione. Per certi aspetti il personaggio di Kai mi ha ricordato quello di Goshu, il violoncellista protagonista dell'omonimo film di Isao Takahata.
Una Lettera per Momo di Hiroyuki Okiura. Dopo la "breve pausa" durata circa
DODICI ANNI! (
), Okiura, che nel '99 aveva appunto esordito come pochi, dirigendo l'immenso
Jin-Roh, torna finalmente nel 2011 alla regia di un lungometraggio. Dai toni, dall'estetica e dagli intenti diametralmente opposti, si presenta fin dai primi istanti come qualcosa di completamente differente rispetto al suo primo film, con il quale condivide di base il design dei personaggi e lo stile delle animazioni, ma dal quale non potrebbe essere più lontano in termini di narrativa, target, temi affrontati. Momo é una ragazzina di circa 11 anni che ha perso suo padre in un incidente e per questo é costretta a trasferirsi sull'isola dove la madre ha trovato lavoro. Qui incontrerà gli zii che la metteranno al corrente delle leggende sui demoni che si tramandano in famiglia, fino a che tre di questi "demoni" non irromperanno nella sua vita, con Momo, dapprima spaventata, sempre più intenzionata a capire perché. Forse ha qualcosa a che fare, appunto, la lettera che suo padre le stava scrivendo prima di morire e che reca scritto solo "Cara Momo". Divertente, leggero e delicato, il film affronta con intelligenza e garbo l'elaborazione del lutto da parte di una ragazzina, ma anche il rapporto con il genitore ancora in vita, anch'esso ovviamente segnato dalla perdita, così come la maturazione caratteriale della giovane protagonista, chiamata ad affrontare il suo trauma ed uscire fuori dal blocco che le impedisce di vivere con serenità il resto della vita. Si avverte in più di un'occasione l'influenza dell'immaginario fantastico di Miyazaki, Kon e della tradizione giapponese in generale per quanto riguarda la rappresentazione dei demoni, in particolare nell'orgia sul finale, che ricorda certe visioni presenti nei film di questi registi e non solo.
The Boy and The Beast di Mamoru Hosoda. Dulcis in fundo, il meglio del lotto, ma solo per manifesta superiorità, perché non si tratta del suo film migliore, ma al contempo sarebbe potuto esserlo ampiamente. Mi spiego meglio. Si tratta praticamente dell'opera magna di Hosoda in termini di narrativa e poetica, un sunto particolarmente denso, carico e bello di tutto ciò che caratterizza la sua Filmografia, affrontando, nel corso di tutta la sua durata, ogni singola tematica presente nei suoi lavori precedenti, dando vita ad un corpus unico, uniforme, definito e completo che fanno del film la controparte in pellicola della persona di Hosoda. E lo fa in maniera grandiosa dal punto di vista estetico e registico, con momenti e sequenze di rara bellezza e potenza che entrano di diritto nell'olimpo dell'animazione giapponese. Dici, dov'é la fregatura? La fregatura é che queste splendide immagini, comparabili a poche altre, sono purtroppo soverchiate, banalizzate e quindi estremamente depotenziate da una narrazione che definire a dir poco sovraespositiva sarebbe la madre di tutti gli eufemismi. Forse contribuisce particolarmente l'assenza di Satoko Okudera alla sceneggiatura, collaboratrice storica di Hosoda fin dal primo lungometraggio, perché in questo caso il nostro sembra essere stato colto da quella che potrei cominciare a definire come la "sindrome da Makoto Shinkai". Quasi ogni cazzo di singola sequenza del film é minata da una scrittura ingenua e ridondante, con momenti potenzialmente immensi che vengono resi particolarmente deboli da metafore e simboli che non passano attraverso il non detto, ma vengono urlati ad alta voce, rispiegati più e più volte, come se il film fosse intenzionato a farsi comprendere da spettatori ritardati, praticamente stile Teletubbies che si rivolgono ai bambini enunciando di volta in volta quello che stanno facendo, cosa stanno usando, dove stanno andando, ecc. Il livello è sostanzialmente quello. Molto più che da mani in faccia. Visione sconsigliata quindi? Anche no. Perché, come detto, sul piano visivo e registico siamo davanti ad un film di Hosoda, da questo punto di vista sì, probabilmente il più potente dei quattro, ma al tempo stesso quello infinitamente più debole nel complesso, per le ragioni espresse poc'anzi.